La città di Patrasso è da decenni uno degli snodi principali delle rotte migratorie verso l’Europa, in particolare l’Italia. Poco distante dai centri abitati e dalle strutture turistiche, esistono intere aree industriali dismesse oggi occupate da migranti in attesa di tentare “il gioco”, l’occasione di imbarcarsi illegalmente sui traghetti verso Ovest. L’autrice fornisce un breve rapporto di questi luoghi e dei loro abitanti, relegati in una condizione di transitorietà permanente. 

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La prima cosa che si nota quando si arriva al porto di Patrasso sono le lunghissime file di tir, in coda per entrare o uscire dai traghetti che partono per i porti italiani dell’Adriatico, principalmente Bari, Ancona e Venezia. Questa immagine, piuttosto comune, che si può ritrovare in moltissimi altri luoghi del mondo, nasconde però una realtà impercettibile ma disarmante, la quale, seppur soggetta a continui processi di invisibilizzazione, costituisce un paradigma dello stato attuale delle frontiere europee.

Patrasso è situata nella periferia della Grecia occidentale nella regione dell’Acaia ed è la terza città greca dopo Atene e Salonicco con una popolazione di circa 200.000 abitanti. A causa della sua posizione e del suo ruolo di città portuale è chiamata “Porta della Grecia verso l’Occidente” e ha sempre rappresentato un crocevia di rotte commerciali per l’Europa, un luogo di transito e una zona di confine attraversata da flussi di merci e persone e da movimenti migratori, in entrata e in uscita. Fu innanzitutto un importante punto di partenza per l’emigrazione greca verso gli Stati Uniti, che a inizio del ‘900 (1890-1940) vide fino a 800.000 persone arrivare Oltreoceano, soprattutto per ragioni economiche legate a crisi finanziarie e del settore agricolo, e, a partire dalla cosiddetta “crisi europea dei rifugiati” del 2015, è al centro di una delle rotte intraprese dalle persone per arrivare in Unione Europea dalla Turchia, attraverso la Grecia. Da anni Patrasso è attraversata da un flusso costante di persone – principalmente provenienti da Afghanistan, Iran, Pakistan, ma anche Algeria e Marocco – che abbandonano i campi e le strutture di accoglienza sparpagliati sul territorio greco o sfuggono ai controlli alle frontiere e si dirigono verso questa città, dalla quale ogni giorno salpano traghetti e navi dirette in Italia, nella speranza di riuscire a oltrepassare la frontiera marittima. 

 

A Patrasso è attiva dal 2019 l’organizzazione No Name Kitchen, composta da volontari/e internazionali provenienti da tutta Europa che ogni giorno si recano presso gli accampamenti informali e i luoghi abbandonati dove vivono le persone in transito e portano loro cibo e vestiti, condividendo sempre chiacchiere e momenti di scambio, nel tentativo di dare brevi e temporanei sollievi alle attese estenuanti che affliggono chi rimane bloccato qui. La popolazione locale convive in maniera relativamente pacifica con la situazione in corso – o in una generale indifferenza rispetto a questa – ed esistono varie forme di solidarietà che si sono attivate nel tempo da parte della società civile; nonostante questo, però, vi è un sostanziale rifiuto da parte della cittadinanza ad abitare nelle zone limitrofe al porto.1

Inoltre a Patrasso non esistono da anni servizi di accoglienza, a parte un centro per minori stranieri non accompagnati gestito da OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), che ospita meno di 20 persone. La decisione delle autorità greche di non avere strutture ricettive sembra essere una scelta strategica, un tentativo di scoraggiare qualsiasi tipo di permanenza in città ed evitare che le persone emigranti provino ad attraversare il mare per raggiungere le coste italiane. Le conseguenze di questa decisione sono chiaramente visibili nelle zone vicino al porto, dove da anni centinaia di persone si accampano e vivono in vecchie fabbriche abbandonate e fatiscenti, dette comunemente factories. Le principali sono l’ex cartiera E.G. Ladopoulos, la fabbrica di legname AVEX e il complesso industriale tessile in disuso Peiraiki Patraiki, tra gli stabilimenti produttivi e manifatturieri più importanti della Grecia e dei Balcani nel corso del ‘900.2

La Ladopoulos, fondata nel 1928, fallì nel 1991, lasciando senza lavoro più di 1200 persone, mentre la fabbrica Peiraiki Patraiki, tra le più importanti della Grecia negli anni ‘20 e ‘30, fu costretta a chiudere nel 1992 anche a causa di numerosi scioperi e proteste di lavoratori e lavoratrici. La superficie di questi complessi è estremamente ampia e occupa una buona parte della zona portuale di Patrasso (solo Peiraiki Patraiki copre 194.524,74 metri quadrati di area)3 a riprova dell’importante ruolo a livello industriale che ricoprivano; lo stato di abbandono e decadenza in cui si ritrovano oggi però mostra con evidenza le conseguenze delle crisi economiche e dei processi di deindustrializzazione e di delocalizzazione che interessano la Grecia da anni, ma soprattutto rimarcano la profonda crisi occupazionale che da anni investe il paese e in particolare l’area di Patrasso.4

Questi luoghi hanno visto negli ultimi anni diversi progetti di riqualificazione e tentativi di recuperare la zona da parte della Municipalità di Patrasso, senza però che venisse mai presa in considerazione la presenza costante di centinaia (e a volte migliaia) di persone che da anni abitano, attraversano ed occupano questi spazi.  

 

 

Da queste specie di squat ogni giorno decine di ragazzi e uomini, di età tra i 15 e i 50 anni scavalcano i muri e le recinzioni del porto e tentano il game: c’è chi lo prova per la prima volta, chi invece ormai è al ventesimo o trentesimo tentativo. Il “game” è come viene chiamato anche qui – come in altri luoghi lungo le rotte balcaniche – il tentativo di attraversare il confine, di raggiungere un’Europa da tutti considerata più “vera”, “reale”, perché percepita come luogo di maggiori opportunità e risorse. Farlo però non è affatto semplice: come raccontano dettagliatamente molte delle persone in transito in questi luoghi, per riuscirci ci si deve aggrappare, nascondere, infilare negli spazi ciechi dei numerosi tir che si imbarcano in direzione di Bari, Ancona e Venezia, e sperare che la polizia non ti trovi.“It’s difficult, you know… you have to be very quick, to hide carefully, not to get caught.”

Se riesci ad arrivare in Italia, hai vinto, se invece la polizia ti trova, ti arresta e ti rispedisce indietro, hai perso. L’amara ironia che sottende l’utilizzo di questo termine serve quasi a esorcizzare la pericolosità e l’estrema incertezza che caratterizza le vite e le sorti di queste persone. Lungo le rotte balcaniche, in Grecia come in Bosnia-Erzegovina o in Serbia, il “game” è a tutti gli effetti una tattica spaziale, una strategia per riappropriarsi della possibilità di movimento e per reagire ai tentativi di disciplinamento messi in atto dai poteri nazionali e sovranazionali: è l’unico modo effettivo per riuscire ad attraversare confini sempre più militarizzati e controllati e continuare il proprio percorso. 

A seconda del periodo dell’anno, nella vasta area delle factories di Patrasso vivono all’incirca dalle 200 alle 300 persone e c’è un andirivieni continuo. Sono soprattutto persone provenienti da Afghanistan, Pakistan e Iran, tutti uomini, moltissimi minorenni. La maggior parte di loro è registrata da anni in Grecia come richiedente asilo ed è in attesa di poter fare il colloquio o di procedere con le pratiche di ricorso dopo il diniego; lo stallo e l’immobilità forzata imposta dalle infinite procedure di asilo e dalla burocrazia, sempre più inefficace e inadeguata, costringe infatti a tentare “the illegal way, a cercare una via di fuga, per provare ad avvicinarsi un po’ di più al proprio obiettivo e all’inizio della vita sperata.

C’è anche chi però è riuscito a sfuggire alle maglie burocratiche e ai controlli per la registrazione dopo aver attraversato il confine greco-turco o ha ricevuto il diniego della richiesta di protezione internazionale (la cosiddetta second rejection) e si trova nel territorio ellenico “illegalmente”, in una condizione di estrema precarietà e invisibilità, su cui gravano costanti paure e incertezza per la possibilità di essere deportati o rinchiusi per periodi indefiniti nei centri di detenzione “pre-rimpatrio” presenti sul territorio.

 

Le factories dove questi emigranti dormono, mangiano, pregano, aspettano e si preparano per il game sono luoghi angusti, marginalizzati e marginalizzanti: rappresentano un non-spazio, un limbo in cui il tempo è rarefatto, sospeso. Qui i giorni sembrano tutti uguali, sono scanditi dai tentativi di attraversare il confine a bordo dei camion e dai momenti in cui si attende e si recuperano le forze in preparazione al game successivo, sperando di avere più fortuna. “If you are lucky you go and then, inshallah, you arrive to Italy. If no lucky, you just try another day”. Nonostante i continui respingimenti illegali, agiti dalla polizia di frontiera sia greca che italiana e denunciati da numerose organizzazioni, Patrasso è considerata da tanti un passaggio difficile ed estenuante, ma poroso e permeabile, più praticabile di altri confini lungo le rotte balcaniche. Per molti tentare il game da qui è uno dei modi più “facili” per raggiungere l’Italia. Sicuramente è uno dei più pericolosi.5

Anche se alcuni riescono nell’attraversamento, tanti altri rimangono però incastrati e intrappolati in questo luogo. L’immobilità che circonda le loro sorti e la loro stessa volontà di muoversi, proseguire e raggiungere la destinazione, risulta spesso totalizzante, schiacciante, e si somma all’incertezza e alla precarietà legate allo status legale e all’alta possibilità di essere deportati. Come raccontano alcuni dei/delle volontari/e e attivisti/e presenti, oltre a tentare il game non c’è altro da fare: “During the day, they just sit down and look at the port thinking how to do the game the next day in a better way. Hoping to be in Italy and to continue the trip soon.” Gli spazi di attesa e di stallo che si creano possono pesare come macigni, bloccare e sconvolgere le traiettorie e i percorsi migratori: sono a tutti gli effetti forme di controllo, dispositivi di gestione e disciplinamento di movimenti altrimenti ingovernabili.

Raramente chi arriva o visita Patrasso è consapevole di ciò che avviene tra gli scheletri degli edifici abbandonati intorno al porto o nelle zone di imbarco dei traghetti. La realtà di questa città non viene spesso raccontata ed è distante dalla ribalta dello “spettacolo di confine” che contraddistingue altre situazioni di transito e passaggio delle persone emigranti. Qui i corpi, le esperienze e i percorsi vengono continuamente invisibilizzati, bloccati, controllati, relegati ai margini, lontano dagli sguardi dei visitatori, dei locali e dei turisti stagionali che passano per la città.6 Ciononostante, questo luogo risulta estremamente emblematico per le dinamiche che crea e le traiettorie che lo attraversano, sicuramente non diversa da posti più noti e mediatizzati come Ventimiglia, Calais o Bihać. Molte delle persone che vivono nelle factories della città e del porto di Patrasso e tentano di riuscire nel game da questo confine, hanno precedentemente provato a passare per Albania, per il Kosovo o per la Macedonia, sono stati respinti, deportati, rifiutati, e ora cercano altri modi, altre vie, per riuscire a raggiungere i loro obiettivi.

Una fitta trama di percorsi e traiettorie continua a svilupparsi, riprodursi e modificarsi nei territori balcanici, a partire dalla Grecia fino alla Croazia, alla Slovenia, all’Ungheria, mostrando gli effetti di una forma di governo della mobilità delle persone che agisce anche “attraverso la mobilità”, che trattiene e contiene i corpi, dirottando il movimento, arginandolo, moltiplicandone i tempi e costringendo i soggetti intrappolati a una sorta di moto senza fine.7

About the Author


Chiara Martini si occupa di migrazioni internazionali. Ha accumulato esperienze di ricerca e intervento sociale lungo la così detta “rotta balcanica”, in Italia, Bosnia e Grecia.

Notes

[1] Zisimopoulou, K.  Zisimopoulou, K.; Fragkiadakis, A. (2016) “The industrial buildings of Patras in the New Port Akti Dymaion area”, Patras Industrial Landscape, 2016

[2]  Mogiani, M. (2021) “Borderless imaginaries, divergent mobilities: Migrants’ reappropriation of urban and logistical spaces in Patras”, antiAtlas #4 

[3] Zisimopoulou, K.; Fragkiadakis, A. (2016) “The industrial buildings of Patras in the New Port Akti Dymaion area”, Patras Industrial Landscape, 2016

[4] A. Gianotti, “Senza lavoro da più di un anno, in Grecia anche uno ogni cinque“, Il Sole 24 Ore, 13 Gennaio 2020.

[5] La rete Border Violence Monitoring Network denuncia da tempo i respingimenti che avvengono anche su questo confine  e così anche l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, ASGI 

[6] Nicholas De Genova (2013) “Spectacles of migrant ‘illegality’: the scene of exclusion, the obscene of inclusion”, Ethnic and Racial Studies, Volume 36, Issue 7.

[7] Martina Tazzioli (2018) “Containment through mobility: migrants’ spatial disobediences and the reshaping of control through the hotspot system”, Journal of Ethnic and Migration Studies, Volume 44, Issue 16.

Immagini:

1) Immagine principale: un murales dipinto da Bassam Mousabi sul muro della cosiddetta “wood factory” a Patrasso. Foto: Chiara Martini
2) La cosiddetta “big factory” di Patrasso. Foto per gentile concessione di No Name Kitchen
3) Il porto di Patrasso. Foto per gentile concessione diNo Name Kitchen
4) Il porto di Patrasso. Foto per gentile concessione di: No Name Kitchen

 


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