Cambiare una città a forza di correre. È quello che è successo a Leadville, in Colorado, dopo che nel 1983 vi è stata organizzata una gara di corsa di 100 miglia. In che modo lo sport trasforma le città?L’ultramaratoneta e scrittore Filippo Con racconta la sua esperienza diretta di luoghi orientati allo sport, dalle montagne rocciose del Colorado alle Alpi francesi e italiane.

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«Quattordici dollari?» ci risponde sbigottita la proprietaria dell’unica caffetteria di Leadville dopo averle comunicato il prezzo medio di un breakfast burrito nel resto dello Stato.

È una mattina di novembre, l’aria rarefatta e il cielo terso dei 3000 metri accendono il bianco della neve del giorno prima a bordo strada. Leadville è una vecchia città mineraria nel cuore delle Montagne Rocciose e l’insediamento più alto degli Stati Uniti. 

Alla fine degli anni Settanta, dopo la guerra in Vietnam e con la crisi del molibdeno, un elemento utilizzato per la produzione di leghe d’acciaio, le miniere della città vennero progressivamente chiuse e il paese si spopolò rapidamente fino a essere virtualmente rimosso dalle carte geografiche. 

In meno di un decennio Leadville era diventata una città fantasma alla Corbucci, dove criminalità e alcolismo erano cresciuti assieme alla disoccupazione. Al contrario delle vicine località di Aspen e Vail, Leadville non si era ancora sviluppata nemmeno dal punto di vista turistico e l’unica cosa che ci si poteva trovare – vuole la leggenda – era true grit, pura grinta. 

E grinta gli daremo. Un minatore del posto chiamato Ken Chlouber venne a sapere che un tale di nome Ainsleigh, in California, stava organizzando una gara di corsa a piedi che da Lake Tahoe percorreva 100 miglia fino a Auburn. Per provare a riportare attenzione in città, Chlouber decise di organizzare una cosa analoga anche a Leadville, e se qualcuno fosse morto provandoci, disse, almeno avrebbero rimesso il paese sulla carta geografica. Fu così che nel 1983, seppur con soli 45 partecipanti, nacque la seconda 100 miglia a piedi della storia e, contro ogni aspettativa, ebbe successo.

Quarant’anni dopo, in questo pomeriggio di novembre, passeggiando per l’unica strada asfaltata del paese si trova un discreto numero di attività commerciali, locali, negozi di attrezzatura sportiva. Lo sport è riuscito a risollevare l’economia locale, ma Leadville non è cambiata: è ancora la cittadina vittoriana con gli edifici in mattoni rossi di centocinquant’anni fa.

 

Una scritta “50k Sage” al Sundown Saloon, una taverna a Boulder, CO. Il graffito si riferisce quasi sicuramente a Sage Canadey, uno dei più competitivi ultrarunner americani dei primi anni ’10, nonché abitante di Boulder (per gentile concessione di The Pill).

 

Non è finta o artificiale, non sembra il set di un film e non ci si chiede se delle case ci siano soltanto le facciate; non c’è traccia di nativi con penne in testa e abiti tradizionali e non si organizzano visite guidate a cavallo. Leadville è un posto in cui le persone vivono realmente, e come spesso accade nei posti duri, la comunità è molto unita. I cambiamenti strutturali avvenuti per accomodare l’onda di interesse portata dallo sport ci sono, ma a caratterizzare il villaggio di Leadville, oggi, è soprattutto quello spirito di redenzione e possibilità, individuale e collettiva, che lo sport stesso ha contribuito a generare. Forse proprio per questo Leadville resiste ad una forzata internazionalizzazione che porterebbe ad un annacquamento della sua stessa anima. 

Ci sono luoghi che per qualche ragione diventano il laboratorio di quello che accadrà nel resto del mondo cinque o dieci anni dopo. Per una specifica fetta di mondo, quella della gente che va in montagna, quel laboratorio è una piccola città del Colorado a un paio di ore di macchina a nord est di Leadville: Boulder.

È poco distante da Denver, la capitale dello Stato, che, come tutte le città americane, si sta progressivamente espandendo in orizzontale inglobando tutto quello che la circonda. Boulder è una città autonoma, con la sua università, una squadra di football, un sito web e circa 120 mila abitanti. 

Si trova al limite occidentale delle Grandi Pianure ma ai piedi delle Colorado Rocky Mountains, le montagne più alte del paese, è servita da uno degli aeroporti internazionali più trafficati degli Stati Uniti, ha un clima continentale ed è circondata da luoghi ideali per fare sport: falesie, canyon, altopiani, praterie, torrenti, boschi, cime di 4000 metri. 

Grazie a queste caratteristiche negli ultimi anni si è trasformata in una piccola mecca degli sport di montagna: la sua popolazione si è progressivamente standardizzata, sono iniziati a comparire negozi di biciclette e di abbigliamento tecnico, caffetterie biologiche, birrerie artigianali, ristoranti etnici. Il costo medio della vita è aumentato emarginando tutti quelli che non avevano i mezzi per inseguire il processo di gentrificazione. 

E questa nascente civiltà bianca, progressista, ambientalista e outdoorsy nell’ultimo decennio ha creato uno stile di vita, coi suoi miti e i suoi must have. I feticci degli alpinisti fricchettoni degli anni Settanta oggi sono diventati gli status symbol di una nuova borghesia, solo un po’ più eccentrica e hip. 

“The place called Boulder on the wild Colorado” è oggi un sobborgo pettinato in stile californiano, e al contrario di Leadville, dove la true grit locale aveva posto i suoi riguardi nei confronti dell’internazionalizzazione, Boulder si è completamente trasformata, ridefinendo, in un decennio, il significato di outdoor da fenomeno weird, strano, a bougie, borghese.

Negli Stati Uniti qualcosa di molto simile sta avvenendo anche a Flagstaff in Arizona, a Mammoth Lakes in California e a Portland in Oregon. Ma Boulder rappresenta il luogo in cui tutto questo è iniziato ed è in un certo senso fallito, dove essere outdoorsy fa status perché diviene facilmente sinonimo di progressismo e di ambientalismo. 

A prima vista, sembra che ogni vera rivoluzione partita da ovest vada infrangersi dall’altro lato delle Montagne Rocciose lasciando, di quell’onda prorompente, soltanto la schiuma. Le città che ho visitato si sono sì evolute attorno alla cultura outdoorsy, ma quasi cristallizzandosi in forme di consumo passivo, visibili sia nell’organizzazione urbana che nel paesaggio. Ma come ogni onda, qualcosa sul bagnasciuga, seppure piano, si muove. Forse per meglio spiegare questa sensazione posso ora guardare a casa mia, l’Europa. 

Una telefonata in Place Balmat, a Chamonix-Mont Blanc, durante la settimana dell’Ultra Trail du Mont-Blanc 2021. L’UTMB è il più grande evento di trail running del mondo.

 

 

Se la civiltà outdoorsy segue una parabola, per capire a che punto della curva si trova l’Europa bisogna andare a Chamonix, in Francia. Dalla prima ascensione del Monte Bianco nel 1786, Cham, come la chiama chi ci va una volta all’anno, è la mecca dell’alpinismo, al punto che questo sport ne ha modellato l’economia e la fisionomia.  

Oggi Chamonix è una cittadina a misura d’atleta, con impianti sportivi di ogni genere, una pista da atletica aperta, campi da basket, skatepark, foreste comunali (foreste, non parchi), locali healthy, birrerie a tema e negozi di attrezzatura. 

Al contrario delle altre località turistiche delle Alpi, come Cortina, Sankt Moritz o Courmayeur, Chamonix ha seguito lo sviluppo di sport alternativi allo sci di discesa: l’alpinismo in ogni sua forma, lo snowboard, lo skate, e in fine la corsa in montagna. Le cicatrici dei decenni di turismo di massa si vedono nitidamente: già dalla costruzione del tunnel del Monte Bianco nel 1965, non solo sono andati aumentando i grandi hotel costruiti per accomodare l’enorme quantità di richieste (attorno ai 2,7 milioni all’anno, per una cittadina di circa 10,000 abitanti),1 ma questo ha portato anche al sovraffollamento di siti di interesse come il Mer de Glace. Fortunatamente, sembra un modello che si sta progressivamente abbandonando e ormai distante dai nuovi abitanti della città.

A loro si deve questo cambiamento. Se Cortina e Courmayeur hanno cicli stagionali, in cui le persone arrivano, trascorrono due o tre settimane e poi se ne vanno (i vecchi e chi può permetterselo: noi un giorno o due al massimo, dormendo in macchina), a Chamonix ci si passa un momento della vita. Qui gli atleti arrivano, si fermano per qualche anno, e solo quando l’aria inizia a essere stantia emigrano altrove; perché anche Cham, a un certo punto, inizia a stare stretta. Pochi si fermano a vita, molti ci muoiono prematuramente, ma nel frattempo portano servizi, possibilità di lavoro, un’economia, e persino un’idea di sport.

Il prototipo dello chamoniardo moderno, quello che arriva, ci vive, ci lavora, e prima o poi se ne va, lo trovo una notte di agosto nell’unico locale aperto del centro, oltre a McDonald. È un’hamburgheria hipster in Avenue Michel Croz, il garçon si è trasferito qui per fare snowboard in inverno e skateboard in estate, ed è finito a lavorare qui, da Roster, per mantenersi affitto e sport. Come lui, altre decine di ragazze e ragazzi hanno trasformato Chamonix in qualcosa di più complesso, moderno e vitale.

Tuttavia, nel suo percorso inerziale verso est quell’onda proveniente dagli Stati Uniti ha perso la sua spinta idealista e politica e ne ha conservato aspetti più esteriori: a Chamonix la consapevolezza di appartenere a un unico movimento culturale è meno chiara, ma dimostra comunque quanto questo stile di vita sia stato capace di plasmare il sistema economico di una città, sebbene in modo spontaneo e, probabilmente, involontario.

Ripenso a queste cose in una caffetteria di Trento, bevendo un filtrato troppo acido e decisamente troppo costoso. Nei tavoli a fianco ci sono universitari che studiano e persone che lavorano al pc. Sono qua da un paio d’ore ma sento già la cameriera girarmi attorno come un corvo, pronta a chiedermi di liberare il tavolo per il pranzo: giocano a fare gli americani, ma poi ti chiedono di andartene. 

È un locale hipster delle Albere, il quartiere simbolo della gentrificazione della città, disegnato da Renzo Piano dieci anni fa e oggi ancora in larga parte disabitato a causa della cattiva amministrazione dell’area. Come Boulder, Trento fa poco più di 120 mila abitanti, è mediamente ricca, internazionale, progressista. Come Boulder si trova ai piedi delle montagne ma è servita come una città di pianura, ha una sua università con annessi ventenni non votanti e fuori statistica, ma con un forte impatto sull’economia locale e ancor di più sul mercato immobiliare.

Trento è uno dei pochi capoluoghi in Italia che oltre a trovarsi in montagna ha anche sviluppato uno stile di vita integrato con l’ambiente circostante: all’interno del Comune ci sono due palestre di arrampicata, un comprensorio sciistico con impianti di risalita, due cime che superano i 1000 metri e due che superano i 2000. 

Ci sono rifugi, bivacchi, baite e malghe comunali, c’è la sede centrale della Società Alpinisti Tridentini e altre sei sottosezioni per ogni circoscrizione della città (solo nella collina est ce ne sono due, a un chilometro e mezzo l’una dall’altra). C’è un Museo delle Scienze Naturali specializzato in ambienti alpini, un club glaciologico, e due elicotteri del Soccorso alpino che sorvolano costantemente la valle, creando una delle impronte sonori più caratteristiche della città. 

A Trento vengono organizzati tre festival dedicati alla montagna, ci sono librerie specializzate, negozi di attrezzatura. La montagna è radicata nell’immaginario collettivo, nel paesaggio sonoro, nel paesaggio urbano, nell’abbigliamento.

 

Corridori durante un evento di corsa DIY a Trento. In città esistono molti nuovi gruppi sportivi autoorganizzati che operano per una nuova visione dello sport all’aperto.

 

Se a Boulder lo stile di vita outdoorsy ha a che fare con l’identificazione, ossia col sentirsi parte di un unico e nuovo segmento sociale mosso da esigenze simili in termini di stile di vita, orientamento politico e orizzonti culturali; a Trento ha a che fare con l’identità collettiva, e per questo non è nemmeno uno stile di vita, ma un fenomeno interclassista più profondo sul piano storico e per certi aspetti più radicato. 

Insomma, se a Boulder outdoorsy è l’effetto di un movimento culturale che le persone riconoscono e abbracciano, a Trento è il risultato della successione e sedimentazione di decenni di fenomeni culturali diversi. Per questo motivo, a Trento non esiste e non si può ancora parlare di un vero movimento outdoor coeso. 

Il che non significa che Trento sia impermeabile alle tendenze del movimento così come è negli Stati Uniti, tanto che lo stesso Trento Film Festival, uno dei primi film festival in Italia e noto per i suoi temi legati alla montagna, negli anni Settanta è stato uno dei principali ponti tra la nascente controcultura dell’arrampicata sportiva californiana e la nuova generazione di alpinisti trentini. 

Tuttavia, a Trento manca la consapevolezza collettiva, anche un po’ naif, di appartenere a uno stesso segmento sociale capace di avere un impatto sulla città e sul modo di viverla. Insomma, l’approccio europeo è più individuale, e slegato a un’idea di comunità. Lo si vede, a uno strato più epidermico, nel modo di vivere gli eventi sportivi: nell’ambiente della corsa americano per un amatore è normale non soltanto partecipare alle gare come atleta, ma prendere parte in prima persona all’organizzazione dell’evento o come volontario o come assistente, o partecipare a iniziative di volontariato, come ad esempio svolgere attività di pulizia sentieri. 

Negli Stati Uniti fare uno sport di montagna significa partecipare attivamente al mantenimento stesso della scena in tutti i suoi aspetti, passando così da essere un consumatore, a persona attiva. Questo atteggiamento partecipativo si traduce anche in attivismo politico e ambientalista: negli Stati Uniti le organizzazioni di gara, le aziende, gli atleti professionisti, i club locali si impegnano costantemente nel promuovere politiche chiare volte a migliorare la vita dell’appassionato non solo sul piano sportivo, ma in generale della sua vita.

In Europa questo attivismo è, se non assente, latente. Se così non fosse, non sarebbe impensabile immaginare una Trento con più piste ciclabili, con impianti sportivi migliori e più in generale con un’economia dell’outdoor più varia e florida. Le nuove generazioni stanno fisiologicamente cambiando questo postulato, e negli ultimi anni sono nati diversi gruppi, collettivi e associazioni che usano lo sport di montagna (arrampicata in prima linea) per veicolare concetti di costume.

 

Un dipendente del negozio Patagonia di Trento ci mostra immagini appesi alla parete del negozio.

 

 

Resta il fatto che questa lunga onda, che da occidente arriva a noi, nel suo tragitto ha perso la forza che la muoveva, e ciò che ne è arrivato qua, almeno per ora, è soltanto la schiuma. Dopo qualche anno, però, a forza di mareggiate, qualcosa ha iniziato a penetrare più in profondità dando i suoi frutti: gli atleti hanno iniziato a viaggiare di più, le informazioni tecniche sono diventate più accessibili, e lo stile di vita outdoor americano ha iniziato a essere visto, percepito, in parte compreso anche qua. 

Sebbene la comunità italiana ed europea sia relativamente indietro da questo punto di vista, è probabile che nei prossimi anni, in luoghi come Trento, in cui la montagna rappresenta uno dei punti centrali della comunità, nasceranno gruppi di persone interessati allo sviluppo delle nostre città anche in questa prospettiva, con tutti vantaggi, le contraddizioni e i problemi che questo porterà con sé.

 

L'autore


Filippo Caon è studente di musicologia presso l’Università degli Studi di Trento, per il resto scrive di sport e di montagna, e per lo più corre. Collabora stabilmente con riviste di outdoor, per cui ha scritto reportage in Francia, negli Stati Uniti e in altre località delle Alpi. Negli ultimi anni ha cercato di contribuire alla scena dell’ultrarunning italiano attraverso lo sviluppo di gruppi sportivi informali e l’organizzazione di eventi indipendenti, inseguendo una visione dello sport aperta, inclusiva ed essenziale. Vede la corsa su lunghe distanze non come uno sport ma come un fatto culturale, attraverso cui raccontare delle cose e mettere insieme delle persone.

Footnotes & references

[1] Chamonix se prépare déjà à un tourisme alternatif, La Quotidienne, https://www.laquotidienne.fr/chamonix-se-prepare-deja-a-un-tourisme-alternatif/ 

 

 


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