Costretto a lasciare l’Italia a causa della sua attività politica, Pietro Marubi cercò rifugio a Scutari, in Albania, dove nel 1856 fondò il primo atelier fotografico del Paese. Le centinaia di migliaia di fotografie prodotte da Marubi e dai suoi figli nel corso dei decenni sono state confiscate dal regime di Hoxha all’inizio degli anni Cinquanta e rese accessibili al pubblico solo nel 2016, quando la collezione fu trasferita al Museo Nazionale di Fotografia Marubi. Con il progetto La memoria dell’aria, Chiaralice Rizzi e Alessandro Laita hanno condotto una ricerca all’interno di questo immenso archivio, recuperato vecchie fotografie e parlato con le persone ad esse direttamente legate, intercettando memorie sospese tra narrazione e silenzio.

Keywords:

Memory believes before knowing remembers.
Believes longer than recollects, longer than knowing even wonders.

William Faulkner, ‘Light in August’

 

Una sola immagine ne porta alla mente altre. Immagini invisibili, eppure vividissime, che scaturiscono dal suo racconto e sembrano colmare finalmente un vuoto. Natasha parla, e parlando ci offre il contesto per avvicinare quella foto, da noi incontrata un mese prima nell’archivio del museo Marubi: una bambina esile, sola, concentrata e stupita; il corpo inarcato, compatto, tramutata in angelo a guardare oltre il limitare della volta della chiesa sconsacrata.

Quella bambina è oggi la stessa donna che, una mattina di settembre del 2019, in un bar di Tirana, a partire da quell’immagine racconta la sua vita. È una foto che genera ricordi, anche di ciò che non è mai stato: il sogno, infranto dal regime di Hoxha, di perseguire la carriera di atleta agonista. Rimaniamo così sospesi tra dialettiche fondamentali: desiderio di libertà e costrizione sofferta, speranza e rimpianto, leggerezza e gravità. Il resto si azzera, l’immagine muta.

La storia di Natasha è la prima di molte che avremmo registrato nell’arco di cinque settimane a partire dal 20 luglio 2021. Sono giornate caldissime e gli appuntamenti potevano essere fissati solo la mattina presto o verso fine giornata. Proprio una delle prime sere, camminiamo assieme a Stella, nostra amica e guida, verso la casa di Leopold, nei pressi di Rruga G’juhadol, nel centro di Scutari.

Passeggiare per le strade di questa città vuol dire procedere a intervalli: parentesi di quiete e lentezza alternate alle luci di esercizi commerciali appartenenti ad un tempo indefinito, al rumore elegante delle biciclette, all’abbaiare dei cani randagi che ridisegnano le proprie traiettorie.

Entriamo in casa di Leopolod salendo dei gradini. Le pareti color ottanio dell’ingresso ospitano dipinti e cimeli di vite lontane, diverse, ancora vive. Ancora non lo sappiamo ma questa sera, nella sua casa, verrà inaugurato il rituale informale che accompagnerà quasi tutti i nostri incontri, fatto di offerte, racconti, silenzio, ascolto, desiderio di conoscenza.

Dopo essere stati ricevuti in soggiorno ci spostiamo in cucina. Leopold stacca dal chiodo un piccolo oggetto in legno, informe e seminascosto, circondato dai riflessi rosa dei tanti utensili in rame alle pareti che hanno intanto catturato la nostra attenzione. Le sue mani tengono quell’oggetto con intimità; non ci stupiamo quando ci spiega che quel pezzo di legno concavo, un semplice cucchiaio, è lo stesso che l’aveva sfamato durante la sua vita in carcere. Aveva 17 anni, ed era stato accusato di essere nemico del popolo perché il fratello sosteneva un partito contro il regime del tempo.

L’italiano che parla con noi l’ha imparato in prigione perché l’élite dell’intelligenza albanese si trovava lì assieme a lui. Quando videro quel giovane così solo e sperduto, gli dissero di trasformare quell’esperienza in un’occasione, ovvero decidendo di imparare ogni giorno qualcosa. Così fece e con quella lingua imparata nella solitudine del carcere, prima di congedarci ci disse: “in ogni famiglia in cui andrete sentirete cose tristi. Tutti hanno una storia da raccontare che è triste. La storia non ha condannato gli italiani come ha condannato noi. Voi non potete capire. Ma è naturale non capire.”

Le sue parole erano cariche di verità. Solo chi si immerge nella storia albanese, e di Scutari in particolare, può capire quanto grondi di sofferenza.

Quelli di seguito non sono che alcuni brevi accenni alla complessità di queste storie, ognuno scaturito dalla forza di un’immagine che si pensava dimenticata. Ogni persona che abbiamo incontrato, aveva gli occhi rivolti al proprio passato, ma le menti erano spinte in avanti: dalla memoria dei tempi di oppressione c’è la volontà di riscatto e rigenerazione, la volontà di raccontare per dire “io esisto”.

Il passato non scivola via mai. Traccia, simbolo, punto di partenza. La memoria si fa corpo, e tiene in mano la propria storia con la stessa spontaneità con cui si tiene in mano un cucchiaio.

 

◊ ◊ ◊


Alma Bazhdari Naraçi
Schkoder, Albania, 2021 

Il padre di Alma. Autore sconosciuto. © Marubi National Museum of Photography

 

 

Una foto che ha sempre avuto un’importanza particolare per me ritrae mio padre fuggito dai campi di concentramento a Prishtina.

Ciascuno a modo suo pensa di avere un bel padre, ma il mio era davvero bellissimo, in ogni sua foto spiccava per questa sua bellezza e l’apparenza curata dei vestiti. Da piccola questa foto mi faceva impressione perché, al contrario, vedevo mio padre triste, trasandato, smagrito, con la valigia distrutta e accanto a un uomo che non riconosco e credo neanche lui conoscesse.

A 19 anni è finito in un campo di concentramento a Prishtina e si è salvato per un caso assolutamente fortuito. Mentre si trovava con un gruppo di persone, condotto per essere fucilato, mio nonno lo vide e, capita la situazione, si fiondò presso la gendarmeria per chiedere quanto chiedessero per sottrarre il figlio.

Pagò la cifra e mio padre venne fatto scendere e lasciato in attesa in un ufficio, da cui sentì i suoi amici morire fucilati. Solo più tardi ho capito che questa storia lo aveva perseguitato tutta la vita. Arrivato a 90 anni, viveva con me in Italia e forse sentendo di non dovere dare conto più a nessuno, scendeva dal palazzo, si accomodava alla stazione degli autobus e diceva ai passanti: “Volete che vi racconti una storia?”

Oppure si recava al parco davanti casa e non appena avvistava qualcuno seduto, gli si avvicinava e iniziava a raccontare di quando a 19 anni si era salvato dai nazisti e aveva sentito i suoi amici morire sotto i colpi di fucile. Quando era ormai molto anziano, i suoi occhi si riempivano di lacrime a raccontare l’episodio, ho capito dunque che aveva vissuto tutta la sua vita traumatizzato dall’avvenimento e non poteva più sopportare il peso da cui aveva cercato di proteggerci.

Il dolore lo aveva trasfigurato a tal punto che una volta tornato a casa mia nonna non lo aveva riconosciuto e sulla porta gli aveva chiesto chi fosse. Nei quattro mesi passati nel campo di concentramento, mio padre non aveva solo perso molti chili, ma anche la luce negli occhi. Una madre riesce a riconoscere il figlio per quanto deperito, ma al suo ritorno mio padre era traumatizzato e svuotato al punto che neanche sua madre lo riconobbe.

Fuggì definitivamente dal campo con la fine della guerra. La consapevolezza che la guerra fosse finita arrivò per lui alla vista dei tedeschi che abbandonavano le armi e correvano via svelti. Conservo questa foto nella mia parte di casa, sul retro si può leggere una scritta a mano lasciata da lui che dice: “Sono tornato dal campo di concentramento tedesco, in quattro mesi ho perso 19 kg”.

Lavoro spesso con stranieri e un ragazzo tedesco che ho incrociato ha lasciato un suo appunto, che altro non è che la traduzione in tedesco della scritta originale. È interessante che abbia sentito il desiderio di riportarla in tedesco, quando mi ha chiesto se potesse non ho esitato nell’accordargli il permesso. Questa foto è quella che più di tutte mi ha colpito tra gli album di famiglia, per questo ho deciso di tenerla con me.

 

A casa di Alma. Fotografia di Chiaralice Rizzi e Alessandro Laita

 

 

◊ ◊ ◊

 

Ahmet Shurdha
Schkoder, Albania, 2021

La famiglia di Ahmet in una foto scattata da Geg Marubi. © Marubi National Museum of Photography

 

 

Guarda un po’ cosa ti faccio vedere. Conservo ricordi di Marubi da quando ero bambino. Mio padre teneva corrispondenze con diverse persone all’estero che erano curiosi di ricevere foto della nostra famiglia, gli amici premevano particolarmente.

Dopo diversi tentennamenti si convenne che si potesse fare. La titubanza a mostrarsi era comune tra chi era stato perseguitato, non era una cosa che facevano con piacere. Quando accadeva, infatti, scatenava i commenti maligni della gente: “Ah siete ancora vivi allora? Ve ne state qua fuori in piazza?”.

Quando mio padre mi disse che saremmo andati a farci scattare una foto, esplosi di gioia. Della visita nel suo studio con la mia famiglia ricordo la sua delicatezza, la sua gentilezza. Entrammo dalla porta al piano di sotto, salimmo poi le scale e appena entrati ci accolse Geg Marubi. Ricordo la contentezza nel trovarsi, lui e mio padre, riuniti; erano amici di vecchia data e in quell’occasione conversarono a lungo. Notai le tende pregiate nello studio posizionate dietro le foto, ricordo la macchina fotografica ricoperta da un ampio panno nero.

Iniziò a disporci: chi si sedeva disponeva di uno sgabello mentre gli altri stavano dietro in piedi. Ancora una volta mi colpì l’estrema educazione che mostrava nel posizionarci, accompagnata da frasi quali “per favore”, “attenzione”, “ancora un po’ di pazienza”, “non tardiamo”, “ancora per poco”.
Disse: “Signor Shurdha, mi permette, posso spostare la signora, solo un attimo, così, ecco”. Era la prima volta che assistevo a una tale premura e non l’ho più scordata da allora.

Geg Marubi ti parlava, chiacchierava con te, aveva un modo di essere assolutamente speciale e, vista la mia età, ho avuto modo di osservare questa sua bontà d’animo nel corso degli anni. Scattare foto a soggetti singoli è decisamente più semplice, ma quella sua gentilezza, quella delicatezza erano rare, con tutta onestà posso dire che fosse un cattolico d’altri tempi, acculturato e credo che, come chiunque avesse avuto occasione di viaggiare un po’ all’estero, si notasse. Non voglio autocompiacermi troppo, ma mio padre è morto austriaco.

A 14 anni suo padre lo mandò a Vienna a studiare. Per un anno lo fece soggiornare da una signora anziana, un’usanza che persiste ancora. Poi trovò una sistemazione tutta per sé, frequentava il collegio, mio nonno tentava di soddisfare tutti i suoi bisogni. Per questo dico che è stato fenomenale: riuscire a raggiungere quegli obiettivi, per una persona che aveva solo la quinta elementare non è cosa da poco. Ed è assolutamente vero. 

I rapporti tra cattolici e musulmani erano straordinari. Tantissime volte mi hanno chiesto di raccontare i rapporti che avevamo con ebrei e cattolici.
Oltre al valore dell’oggetto in sé, questa foto per me rimane come testimonianza di quella sua cortesia. Nella foto, qui sullo sgabello a destra c’è mio padre Muhamet Shurdha, accanto la sorella Fatbardha, a sinistra mia madre, Nezihat Behri Shurdha, nella fila sopra mia sorella Vahide e l’altro sono io, Ahmet.

A casa di Ahmet. Fotografia di Chiaralice Rizzi e Alessandro Laita

 

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Romeo Gurakuqui
Schokder, Albania, 2021

I fondatori del Club dela Lingua Albanese, in una foto scattata da Pietro Marubi nel 1908 © Marubi National Museum of Photography

 

 

Questa è una foto dei fondatori del club La lingua albanese, fondato nel 1908.

In seguito alla Rivoluzione dei Giovani Turchi, venne rivista la Costituzione dell’Impero ottomano, di cui l’Albania era allora una provincia. Furono concessi l’insegnamento della lingua albanese e la formazione di organizzazioni culturali. Una di queste fu proprio il club, ad opera di alcuni ragazzi diplomatisi alla scuola italiana “Arti e Mestieri” di Scutari.

L’attività del club subì una breve interruzione che non saprei datare con precisione, ma considerando che la foto è del 1911, venne scattata probabilmente poco dopo la ripresa delle sue attività. Qui in particolare possiamo vedere dei membri intenti a leggere la rivista Bashkimi i Kombit (Unità della Nazione), pubblicata a Monastir (Bitola), che si trova nel Sud dell’attuale Repubblica della Macedonia del Nord.

Mio nonno Lazër Gurakuqi lavorava come corrispondente per la rivista: nella foto, scattata da Marubi, lo si vede intento a leggere un numero ai suoi amici. Come si può notare hanno sempre rispettato le norme di espressione identitaria che vigevano all’interno dell’impero, indossando in pubblico il fez rosso. Mio nonno, qui, in onore dell’Albania indipendente non lo indossa. È un dettaglio che mi aveva fatto notare mio padre e prima ancora mia nonna e da allora mi è rimasto impresso.

Mentre qui c’è l’organo direttivo del club “La lingua albanese”.  L’atto di fondazione avvenne in concomitanza allo svolgimento della prima assemblea e lenomine del direttivo: il direttore Kel Kraja, il vicedirettore Mati Logoreci, il segretario Bumci, i membri Kel Koleli, Kel Marubi, Karlo Suma e per ultimo mio nonno Lazër Gurakuqi. Ho sempre tenuto questa foto in casa, in un formato più piccolo, dovrei avercela da qualche parte.

Questa che vedete è una versione ingrandita, che insieme ad altre foto di famiglie di Scutari hanno adornato il mio studio all’Università Europea di Tirana per ben undici anni. A chiunque venisse a trovarmi ed entrasse nel mio studio raccontavo della mia città, Scutari.

I fondatori del club furono anche gli ideatori e promotori della Biblioteca nazionale albanese. I dettagli di quella vicenda sono emersi recentemente grazie al recupero dell’intera documentazione da parte del professor Aurel Plasari, una delle menti più brillanti e preparate che abbiamo oggi in Albania. Con la sua ricerca ha illuminato la storia finora sconosciuta del club della lingua albanese e secondo i documenti raccolti cita mio nonno come uno degli ideatori. Vi è un altro dettaglio legato al trasferimento della biblioteca della commissione letteraria di Scutari a Tirana.

Sotto il dominio austriaco l’Albania ha prosperato. In questo periodo florido venne fondata una specie di Accademia delle scienze albanese, in cui per la prima volta veniva introdotta una commissione letteraria che riuniva gli intellettuali migliori dell’epoca e albanologi dall’estero. Tra le istituzioni di cui la commissione era a capo figurava una ricca biblioteca. Inizialmente collocata a Scutari, a partire dal marzo del 1920, venne trasferita a Tirana per volere di Karl Gurakuqi. La sua collezione funzionò quindi come base per la costruzione dell’attuale Biblioteca nazionale a Tirana.

Il racconto che Plasari fa di quel trasferimento è meraviglioso. Bisogna ricordarsi che tutto ciò avveniva nell’Albania degli anni Venti, un paese arretrato, senza strade: per percorrere il tratto Scutari–Tirana potevi impiegare fino a qualche giorno, ed era una strada piuttosto accidentata. Inizialmente i libri trovarono una nuova sistemazione presso la biblioteca del ministero dell’Istruzione, fino alla fondazione della Biblioteca nazionale su iniziativa di Karl, che ne fu anche il primo direttore e fece trasferire lì tutti i libri.

Nello studio di Romeo. Fotografia di Chiaralice e Alessandro Laita

 

 

Gli autori


Alessandro Laita (1979) e Chiaralice Rizzi (1982) si sono laureati in Arti Visive allo IUAV di Venezia nel 2009. Dal 2010 al 2015 hanno lavorato nella stessa facoltà̀ come assistenti per i corsi di Antonello Frongia, Lewis Baltz e Adrian Paci. La loro pratica artistica si articola attorno alle relazioni esistenti tra paesaggio, immagine, memoria e la loro rappresentazione. Nei loro lavori, attraverso un processo di osservazione, le immagini si fanno racconto, andando oltre la semplice comprensione visiva. Manifestandosi attraverso media differenti, la loro ricerca pone domande critiche sul linguaggio fotografico come pratica. Nel 2016 hanno vinto il Lewis Baltz Research Fund e hanno pubblicato il loro primo libro con MACK (Londra). Sono stati beneficiari di borse di studio e residenze per artisti a Venezia (Fondazione Bevilacqua La Masa - Italia), Winterthur (Villa Straüli - Svizzera), Saratoga Springs (YADDO - U.S.A), Parigi (Cité Internationale des Arts - Francia). Vivono e lavorano a Milano.

www.laitarizzi.com

Note

Immagine di Apertura:
Angjelin Nenshati, ‘First Show at the New Youth Club’, 1967. © Marubi National Museum of Photography


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