Comunemente inteso come sfondo dello svolgersi degli eventi, il paesaggio nel fumetto può talvolta giocare un ruolo più rilevante, passando da ambientazione a soggetto. In questo articolo, Daniele Barbieri, semiologo, illustra alcuni momenti della storia del fumetto in cui il paesaggio si fa largo, divenendo anch’esso protagonista del racconto.

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Il fumetto nasce umoristico, poi si tinge di fantastico e di avventura. Nell’umoristico il paesaggio è di solito poco rilevante; nell’avventura è funzionale al racconto, pura descrizione della situazione affrontata dall’eroe. A partire dagli anni Sessanta del Novecento ha inizio però una trasformazione espressiva, e progressivamente, sempre di più, il racconto psicologico, su base interiore, prende piede nell’ambito del raccontare a fumetti, prima mascherato come forma particolare di avventura o di umorismo, poi sempre più autonomo, sempre più genere a parte, definitivamente sancito dall’avvento del formato graphic novel. Questa trasformazione coinvolge anche il ruolo del paesaggio, che non è più solo sfondo degli eventi, contestualizzazione narrativa, diventando a sua volta un protagonista espressivo, una forma simbolica.

Ma, come spesso accade, c’è un precedente importante a questo sviluppo. Già nel 1911 George Herriman inventa Krazy Kat, una striscia umoristica basata sul tormentone infinito dell’amore impossibile di un gatto/gatta per un topo, destinato ogni volta a concludersi con il lancio del mattone da parte del topo verso la testa del gatto.

Krazy Kat di George Herriman, 1922

 

Nei 33 anni in cui Krazy Kat viene portata avanti, l’amore impossibile tra la gatta e il topo viene declinato in tutte le forme possibili, con una stupefacente sensibilità espressiva, anche attraverso la nascita di una comunità di personaggi e di un luogo in cui le vicende si snodano: Coconino County.

E quello di Coconino County è il primo paesaggio espressivo del fumetto: alle spalle dei personaggi, anche quando essi sono evidentemente immobili, il mondo continua a trasformarsi, come lo sfondo di un sogno. Montagne da Monument Valley, alberi come curati da un giardiniere un po’ folle, pianure sterminate: il paesaggio ci racconta l’interiorità stupita e inconsapevole dei personaggi. Da un lato è enigmatico e perennemente mutevole come loro, nello stesso tempo, è anche sempre lì, alla lunga protervamente (identico a se stesso) fedele alla sua essenza, proprio come loro.

Negli anni Settanta, uno dei fumetti giapponesi più influenti della storia, Kozure Okami (in Occidente, “Lone Wolf and Cub”) di Kazuo Koike e Gōseki Kojima, racconta le avventure di un samurai diseredato, che conduce la paradossale vita dell’assassino prezzolato pur rispettando rigorosamente l’etica del bushido.

Kozure Okami (“Lone Wolf and Cub”) di Kazuo Koike e Gōseki Kojima, 2001

 

Pur potendolo definire, a rigore, certamente un fumetto di avventura, Kozure Okami è anche un capolavoro di sottigliezze psicologiche e di imprevedibili virtuosismi narrativi. Il paesaggio vi gioca un ruolo che è tradizionale nell’arte visiva dell’estremo oriente, dove da sempre la rappresentazione del luogo è deputata a trasmettere quello che non si vuole (o non si può) dire direttamente. Ci sono interminabili (e bellissime) sequenze di vignette in cui il protagonista non fa che camminare nella natura del medioevo giapponese, e anche gli inevitabili scontri d’armi sono sempre localizzati in ambienti che non è difficile riconoscere come simbolici.

Poi, nel 1982, il paesaggio è l’assoluto protagonista de Il signor Spartaco, di Lorenzo Mattotti. Spartaco è un sognatore, e la storia viaggia a cavallo tra realtà e sogno. Spesso Spartaco si perde in contemplazione, e ciò che contempla è il paesaggio, naturale o urbano. Quello che vede è quello che è lui, interiormente, in quel momento.

Il Signor Spartaco di Lorenzo Mattotti, 1982

 

Nel 1984 Mattotti produce uno dei fumetti del secolo: Fuochi. I protagonisti sono il tenente di corazzata Assenzio, e l’Isola di Sant’Agata. Quello che accade ad Assenzio nel corso della vicenda è esattamente di perdere la propria coscienza nel paesaggio, nella sua duplice forma: luminosa e delicata e solare di giorno; estrema, dolorosa e costellata di fuochi la notte. Il paesaggio non solo esprime uno stato emotivo, ma direttamente lo è: è l’Isola di Sant’Agata che respira, è tutto quanto di emotivo si contrappone ai rigori razionali della vita militare.

Fuochi di Lorenzo Mattotti, 1984

 

Da questo momento in poi, nei lavori di Mattotti emotività e paesaggio saranno praticamente una cosa sola. Già nel titolo, la sua prima graphic novel in bianco e nero, L’uomo alla finestra (1992) è un diretto rimando allo sguardo sul mondo esterno, che è al tempo stesso uno sguardo verso l’interiorità: la medesima linea sottile di pennino disegna le persone e le cose; personaggi e paesaggio sono una cosa sola.

Ancora più estremo è l’approccio di Oltremai (2013) una serie non narrativa di tavole realizzate con il pennello a china, dove sono presenti esclusivamente paesaggi, con piccole figure umane ricorrenti che li attraversano. Non c’è nemmeno più il racconto, e l’opera è difficilmente classificabile come fumetto, ma altrettanto difficilmente come illustrazione (perché non illustra nessun testo) o come pittura (per la sua natura multipla, e per le tecniche e i supporti utilizzati): c’è una serie di momenti fortemente emotivi, apparentati dalla medesima inquietudine, veicolati da una dimensione fantastica tutta basata sul paesaggio.

Oltremai di Lorenzo Mattotti, 2013

 

In Italia, tra i tanti che raccolgono la lezione di Mattotti c’è certamente Gipi, che apre il suo primo libro (Esterno notte, 2003) con un grande paesaggio, quasi a piena pagina. E proprio in contrasto con quello che quel paesaggio sembra iniziare a raccontare si apre invece la prima storia del volume, La storia di Faccia, dove un personaggio ci parla sboccatamente, prendendosi la scena e rifiutando la fallacia patetica del paesaggio. Gipi ha un’ispirazione molto più vicina al realismo di quella di Mattotti, molto spesso rivolta verso aspetti autobiografici. Ma il paesaggio gioca un ruolo non troppo dissimile, trasmettendo quello che le parole non possono (o non vogliono) dire. Molto più delle parole, il paesaggio, anche evocato graficamente, è in grado di avvolgerci, trasformando la normale frontalità delle immagini e delle parole in un’immersività che è quella dell’ascolto musicale, ma anche della partecipazione emotiva.

Esterno notte di Gipi, 2003

 

Di questo valore immersivo del paesaggio si erano già accorti Les Humanoïdes Associés nei primi anni Settanta, quando iniziavano a pubblicare le loro storie volutamente senza né capo né coda (perché, come sosteneva Moebius in un’intervista del 1974, non è necessario che una storia sia fatta come una casa, con una porta per entrare e un tetto a coprirla; una storia può essere fatta come una nuvola, a forma di elefante o di giraffa).

Moebius e Druillet sono acutamente consapevoli che il tema fantascientifico è poco più che una scusa, utile per avere maggiore libertà, e che giocare su grandi immagini di paesaggio permette di configurare il testo a fumetti come una serie di immersioni in tonalità emotive e coinvolgenti. Il racconto, in sé, rimane solo come tensione verso una comprensibilità spesso di fatto negata, mentre la suggestione delle immagini e della loro sequenza fa la parte del leone.

Yragaâl di Philippe Druillet, 1971

 

Anche se l’estremismo antinarrativo degli Humanoïdes non avrà seguito diretto, e lo stesso Moebius tornerà presto a raccontare vere storie, la dimensione emotivamente spettacolare del paesaggio rimarrà a caratterizzare molto fumetto francese. Se ne ritrovano, per esempio, le tracce (ma anche quelle di Gipi, direi) nel bellissimo Blast, di Manu Larcenet (2009-11), una storia che, nella migliore tradizione dei polizieschi di Georges Simenon, sembra essere la ricerca di una storia, e in cui il paesaggio è immondo e struggente quanto lo squilibrato ma acutissimo protagonista.

Arzak di Moebius, 1975

 

Il ruolo emotivamente espressivo del paesaggio che caratterizza il fumetto contemporaneo colto si manifesta non solo in autori caldi come quelli di cui abbiamo parlato sinora, ma anche nel lavoro apparentemente raggelante dell’americano Chris Ware. Ware ha un segno estremamente regolare, quasi geometrico, e spesso esattamente geometrico quando si tratta di rendere gli edifici, sempre mostrati in visione assonometrica – mai, cioè, secondo le regole della prospettiva centrale rinascimentale. Questa ossessione per l’ordine coinvolge anche l’architettura delle pagine, realizzate con una precisione minuziosa e un proliferare di vignette grandi e piccole o piccolissime, il tutto sempre di straordinaria e inquietante eleganza.

Building Stories di Chris Ware, 2012

 

Le storie che Ware racconta non sono lontane da quelle della tradizione minimalista: storie di piccole vite e di frustrazioni, mostrate con una precisione accurata e impietosa, come se si trattasse di insetti sotto la lente dell’entomologo. Ma la sensazione di distacco che se ne ricava è evidentemente apparente, perché sotto questa freddezza di superficie c’è un intero mondo di esserini che si agitano disperati, ed essi siamo noi, evidentemente. Anche in Ware il paesaggio gioca un ruolo cruciale, perché è altrettanto freddo, geometrico e inumano quanto l’apparenza di quelle vite.

Nel rapporto con il paesaggio, Ware rende evidente la propria concezione tragica della vita, perché i suoi protagonisti ne sono prigionieri, così come gli eroi antichi lo erano del proprio destino. Il paesaggio è l’immobilità del mondo che ci circonda, in sé né bello né brutto, ma certamente avvolgente: una condanna per l’eternità, dovremmo dire.

 

L’autore


Semiologo, si occupa di ricezione testuale, e, più in generale, di problemi riguardanti il visivo, la narrazione per immagini e la poesia, temi su cui ha pubblicato dodici volumi (di cui due tradotti in lingue estere) e oltre 400 articoli, e svolge un'intensa attività. Ha insegnato presso l’Università di Bologna (1995-96 e 2001-2009), di Roma (1996-98), di Urbino (2001-2009), il Politecnico di Milano (2007-2008), la SUPSI di Lugano (2007-2013), l’Università di S.Marino (2014 a oggi), presso gli ISIA di Firenze (1996-97) e Urbino (1996 a oggi), presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna (dal 2007, dove è oggi di ruolo) e l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino (2012-2013).

www.danielebarbieri.it

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