Nel cuore delle montagne trentine si trova un carcere di massima sicurezza. Tra i prigionieri c’è M49, un orso bruno classificato come pericoloso per i suoi ripetuti attacchi a beni, proprietà e bestiame. L’animale è stato oggetto di grande attenzione da parte dei media, sia in patria che all’estero. Quali sono i valori culturali che si celano dietro la contestazione di questa figura? Da dove viene l’immagine dell’orso maligno e come si è evoluta nel corso del tempo? In questo articolo, Amedeo Policante esplora gli sviluppi di questa genealogia, mostrando l’influenza che ancora oggi esercitano sulla cultura contemporanea.

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Il 18 Ottobre 2020, centinaia di trentini e decine di attivisti arrivati da tutta Italia partecipano ad una manifestazione presso il Centro Vivaistico Forestale “Casteller” di Trento: un complesso di gabbie di due metri per sei, circondato da tre recinzioni elettriche a settemila volt, una barriera alta quattro metri, decine di telecamere a circuito chiuso ed un centro operativo piantonato da guardie armate in tenuta verdognola. Dall’esterno sembra una prigione di massima sicurezza. I detenuti non hanno nomi comuni, ma codici identificativi univoci che racchiudono una serie di informazioni genealogiche sul soggetto: M57, DJ3 e M49.

‘Smontiamo la Gabbia. Dalla parte degli orsi ribelli’, questo lo slogan che accompagna la mobilitazione lanciata dal Centro Sociale Bruno e Assemblea Antispecista il 18 Ottobre 2020. Foto: Bruno Stivicevic.

 

Il primo è un giovane maschio, identificato come il probabile assalitore di un carabiniere presso il lago di Andalo. Ora, secondo la relazione dei carabinieri che ne verificano le condizioni su ordine del ministro Costa, “ripete costantemente dei movimenti in maniera ritmata”, e si auto-infligge “lesioni cutanee nell’avambraccio sinistro”. La seconda è una diciassettenne resasi responsabile di “numerose incursioni nei centri abitati” e “predazione di pecore”, prima della sua cattura definitiva oltre nove anni fa. Ora: “si nasconde ed evita qualsiasi contatto”. Il terzo è un personaggio discusso a livello internazionale e, almeno secondo un comunicato ufficiale della provincia di Trento, un individuo “altamente dannoso”. Colpevole di “predazioni di bovini, equini, ovi-caprini, suini e avicunicoli”, nonché di “tentativi di penetrazione in caseifici e stalle di malghe”, è fuggito già due volte dalla struttura del Casteller, divellendo le sbarre in ferro per poi cercare riparo nei boschi del Lagorai. Ora: “Ha smesso di alimentarsi e scarica tutte le sue energie contro la saracinesca della tana”.1

Il Centro di recupero fauna alpina di Casteller: “un vero e proprio luogo di pace per gli animali feriti”2 e “un girone dantesco, dove gli animali reclusi sono quotidianamente bombardati da psicofarmaci, rinchiusi in gabbie di pochi metri quadrati, in fortissime condizioni di stress psico-fisico”.3

 

Tutti e tre sono stati giudicati dalle autorità competenti “soggetti problematici”, termine tecnico con cui si indicano individui ritenuti pericolosi oppure eccessivamente gravosi sull’economia locale. Tutti e tre sono orsi nati in Trentino, figli e figlie degli orsi importati dalla Slovenia tra il 1999 e il 2001, al fine di rimpolpare una popolazione locale in via di sfinimento ed estinzione.4

I partecipanti al corteo che chiede la loro liberazione sfilano per le vie del piccolo capoluogo alpino, accompagnati da striscioni di protesta e iconografie ursine. Raggiungono la periferia urbana che ospita le gabbie di ferro e cemento armato, abbattono oltre settanta metri di recinzione esterna ed entrano in conflitto con agenti della polizia in assetto antisommossa. L’assurdità della situazione scatena le decine di fotografi presenti sul luogo degli scontri. Centinaia di immagini di orsi e uomini vengono prodotte in quelle ore e, il giorno successivo, affollano le pagine di quotidiani locali e nazionali. L’evento provoca questioni che trovano risposte sbrigative nei bar di paese e nelle cene di famiglia. Come siamo arrivati fin qui? Da dove nasce questo conflitto politico? Chi si affronta ai margini di un centro forestale, e perché la polizia ne difende il perimetro? E poi, chi sono questi plantigradi? Cosa rappresentano per queste donne e questi uomini che si lanciano contro le gabbie? E per tutti gli altri che in queste gabbie ce li hanno messi, e che ora proteggono le sbarre d’acciaio?

Il Centro Sociale Bruno a Trento porta nel nome la memoria del cucciolo di orso nato in Trentino nel 2003, e tre anni più tardi abbattuto ed impagliato in Germania in seguito ad uno sconfinamento irregolare.5

 

Queste pagine partono dall’assioma che, se vogliamo davvero comprendere meglio le immagini prodotte dalla rivolta del Casteller, è necessario fare parecchi passi indietro. Le montagne e le valli alpine sono da secoli teatro di frequenti incontri (e scontri) tra homo sapiens e ursus arctos; incontri che, come vedremo, hanno contribuito a modellare le variegate forme assunte dalla cultura e dalla società alpina nei secoli. Tracciare la storia di questa difficile convivenza interspecista non può dunque essere inteso come puro esercizio museale ed archeologico. Fare un passo indietro è sempre una manovra strategica, un atto politico che determina l’angolazione e la prospettiva da cui guardiamo al nostro presente.

Basti qui un piccolo esempio, paradigmatico nella sua banale quotidianità. Nei giorni immediatamente precedenti l’insurrezione del Casteller, su uno dei principali quotidiani britannici, appare un lungo articolo dal titolo “L’orso Papillon: come il genio della fuga ha innescato un dibattito nazionale in Italia”. All’interno trova spazio un’intervista a Mauro Varesco, giovane imprenditore della Val di Fiemme, che spinge per la riapertura della caccia all’orso. “Da queste parti” spiega Varesco, “fino a qualche decennio fa, le persone venivano incentivate con grosse taglie alla caccia all’orso. I nostri antenati avevano capito giusto”.6  In questa narrativa appena abbozzata – ma estremamente popolare, poiché replicata all’infinito dalla Presidenza Leghista della Provincia Autonoma di Trento – lo scontro zoologico-politico attuale coinvolge due fronti ben distinti e radicalmente contrapposti: da una parte, una popolazione forgiata da secoli di lotta contro l’orso, e votata da sempre a liberare le montagne dalla presenza scomoda del plantigrado; dall’altra, un ambientalismo moderno, cittadino, legato ad una sensibilità totalmente estranea a queste valli.

Ma è davvero tutto cosí semplice?

“Per liberarci dell’infesto animale”: Una Prima Genealogia dell’Orso Tridentino

Ci accorrono in soccorso tre volumi, pubblicati in tempi relativamente recenti, che ci permettono di ricostruire un po’ meglio il processo storico-semiotico attraverso cui l’immagine dell’orso alpino è andata modificandosi nel corso dei secoli, in particolare dal periodo alto medioevale ai giorni nostri.

Il primo è un testo del medievalista Massimo Montanari, intitolato Uomini e orsi nelle fonti agiografiche dell’alto medioevo (1988). In questo testo, Montanari avanza una tesi interessante riguardo lo status culturale dell’orso nell’arco alpino. La trasformazione dell’immagine dell’orso nel periodo che va dal primo al tardo medioevo sarebbe strettamente legata ad un lento processo di antropomorfizzazione dell’ambiente montano, che ha contribuito a scompaginare la classica distinzione tra civiltà e natura selvaggia. All’avanzamento dell’economia agricola corrisponde, sul piano mentale, un’immagine sempre più negativa della montagna: buona non più in sé e per sè, ma soltanto in quanto spazio vuoto e quindi potenzialmente trasformabile e valorizzabile.

“In un contesto economico e culturale che va orientandosi verso l’agricoltura e la domesticazione degli animali”, scrive Montanari “la figura e il ruolo narrativo dell’orso, immagine della selvatichezza, cambiano. L’incontro dell’orso con l’uomo non avviene più all’interno del bosco, ma fuori di esso, generalmente ai suoi margini. L’uomo (nelle nostre fonti, il santo) non cerca, ma subisce quell’incontro, lo vive come una minaccia proveniente dall’esterno.”7

In altre parole, proprio perché la montagna esce dal selvaggio ed entra nella storia, l’orso appare progressivamente come un animale scomodo, simbolo di tutto ciò che nella natura resiste e rigetta l’azione civilizzatrice dell’uomo, e che deve quindi essere continuamente ridotto a ragione. Il rapporto con l’ orso, secondo Montanari, cessa di essere “in qualche modo paritario, fondato sul reciproco riconoscimento e sulla possibile convivenza – per diventare un Tierkampf, una lotta con la bestia”.8

“Fatto stupendo, o cosa strana! L’orso, la belva, si fa umana. Stupor maggior che l’uomo nato, in belva or cerchi esser cangiato”. Questa iscrizione, riportata da ignoto autore sul portale d’ingresso al santuario di San Romedio in val di Non, ricorda il miracolo più noto attribuito al Santo Eremita: l’aver cavalcato fino alla città di Trento in groppa ad un orso domato per l’occasione.

Nel 1902 Teddy Roosvelt, allora Presidente degli Stati Uniti, si rifiuta di abbattere un cucciolo di orso, messo all’angolo durante una battuta di caccia. La notizia ha grande risalto sui giornali del tempo e ispira la ‘Ideal Novelty and Toy Corporation’ a produrre il primo Teddy Bear: simbolo di una ormai natura domata e fragile.9 Paradossalmente l’orso – che va scomparendo da un territorio sempre più antropomorfizzato – diventa un irsuta icona ubiqua all’interno della cultura popolare. Foto: Nina Leen.

 

La casistica di questo asservimento dell’orso all’imperiosa signoria dell’uomo è assai vasta, e trova eco in nuove, variegate e sorprendenti soluzioni iconografiche. Secondo Anna Benvenuti, che riprende e ampia i fondamentali studi di Franco Cardini (1986), Giorgio Massola (2013) e Michel Pastoureau (2008), “nella maggior parte dei casi rappresentati dagli agiografi, l’animale – dopo aver aggredito e ucciso le bestie da soma o da traino impiegate dal santo nei suoi spostamenti – è obbligato a sostituirle fino a quando, scontata la pena, gli viene concesso di rientrare nel ferino disordine dell’incolto. Queste immagini di orsi pastori o ortolani, aggiogati a carri o trasformati in cavalcature, devitalizzati da ogni ricordo di ferocia iniziatica o mimesi belluina, privi del fascino alieno del bosco profondo e disabitato, sono icona di un nuovo atteggiamento culturale nei confronti dell’ambiente”.10

Questa svalutazione culturale dell’orso continua lungo tutto l’arco dei secoli successivi, raggiungendo la sua massima espressione nella caccia sistematica e statualizzata che, tra ottocento e primi del novecento, porta ad un declino irreversibile della popolazione di ursidi alpini. È proprio su questa sanguinosa vicenda che si concentra Sulla Pelle dell’Orso: la caccia nei documenti del passato e nelle memorie ottocentesche di Luigi Fantoma un prezioso studio firmato dagli storici trentini Anna Finocchi e Danilo Mussi. Il volume ci riporta – attraverso un prezioso lavoro d’archivio – la storia documentale di uno specicidio annunciato, pianificato, e perseguito scientificamente.

Data cardine di questa vicenda è il 18 Ottobre del 1818, giorno in cui il governo austro-ungarico  – che fino al 1918 governa la totalità delle Alpi Orientali – dichiara “guerra all’orso”. Vengono, dunque, introdotte taglie, incentivi e riconoscimenti – a cui talvolta si aggiungono premi ulteriori istituiti dalle amministrazioni locali – al fine di spronare tutti i presidi montani ad ingaggiare uno sterminio sistematico degli orsi ancora presenti sull’arco alpino. Per le istituzioni, l’orso è ora soprattutto un ostacolo alla crescita economica delle regioni alpine, e la sua estinzione diventa quindi un esplicito obiettivo politico: non uno spiacevole accidente storico, ma una parte integrante del processo di modernizzazione in atto.11

La caccia all’orso, che ancora in periodo tardo medievale è affare epico, periglioso e decisamente costoso, viene progressivamente democratizzata e semplificata dalla diffusione di efficaci ed economiche armi da fuoco. Si fanno strada cosí i primi professionisti della caccia all’orso: personaggi d’estrazione popolare, come Domenico Ramponi e Luigi Fantoma, che costruiscono le proprie fortune economiche sulla riscossione seriale di taglie.

“Caccia all’orso” di Stephan Kessler (1678), pittore a lungo residente a Bressanone. Fino ai primi dell’800, la caccia all’orso rimane un’impresa epica ed aristocratica, una piccola guerra, foriera di considerevoli rischi e spaventosi costi. In questo olio su tela, un uomo elegantemente vestito impiega un moschetto, un cavallo bianco, due bracchi, due paggi con lance nel tentativo di abbattere un orso.

 

La guerra tuttavia non si combatte soltanto nelle valli e nei boschi, ma anche nelle aule universitarie e nei salotti cittadini, contribuendo a lasciare tracce profonde nei documenti istituzionali e nella memoria locale. Esempi prominenti di questa sensibilità modernista possono essere ritrovati nei testi di un letterato come Giovanni Battista Sicheri, per il quale l’orso rappresenta una “codarda ferità”, un “infesto animale” e una “malefica belva”;12 cosí come nelle relazioni  di un naturalista come Agostino Bonomi. Nato a Madice di Bleggio nel 1850, membro dell’Accademia degli Agiati di Rovereto e più volte consulente del Consiglio Provinciale di Trento, Bonomi scrive cosí di una valle trentina nel 1889: “Fra tanto bello c’è anche il suo punto nero. Nella valle di Tovel ha stabile dimora l’orso. Ad onta della continua guerra che l’uomo gli fa, il temuto carnivoro, protetto dagli inacessibili dirupi e dalle folte selve, vi si mantiene a dispetto dei pochi visitatori della valle”. Ed annota: “Affine di porre un argine alle ruberie della fiera, raccogliendo i lagni dei poveri montanari, colpiti nei loro vitali interessi, l’inclito Consiglio Proviciale della Provincia di Trento, presentó all’Ecc. Ministero d’Agricolture, un rapporto invocando provvedimenti per liberarci dell’infesto animale”. Oggi celebrato dalla Comunità delle Giudicarie come “ambientalista ante litteram”, Bonomi considera l’estinzione dell’orso un’urgente opera pubblica, da condurre a termine in tempi celeri: “La caccia a questo formidabile devastatore delle nostre mandrie continua con alacrità, e non sarà lontano il giorno in cui la specie scomparirà come tante altre che la precedettero”.13

Per gli eredi culturali del Sicheri e del Bonomi, poco o nulla è cambiato. Basti ricordare che Maurizio Fugatti – oggi Presidente della Provicia Autonoma di Trento – presentò la decisione di servire carne d’orso alla prima festa estiva della Lega Nord Primiero nel 2011, con queste programmatiche parole: “Per difendere e tutelare le popolazioni nelle zone di montagna del Trentino dalle continue visite degli orsi, noi preferiamo consumarli in questo modo”.14

L’estinzione dell’orso dall’arco alpino orientale si consuma a cavallo tra ottocento e novecento: nel 1835 viene abbattuto l’ultimo orso della Baviera, nel 1904 in Svizzera, nel 1913 in Tirolo. In Alto Adige, l’ultima caccia all’orso di cui si ha documentazione ha luogo nel 1930 in Val d’Ultimo (sopra). Nel 1939, il Testo Unico sulla Caccia 1016 dichiara l’orso “specie protetta”.

 

“Tutti i fruscii ci suggestionano”: Un’Altra Genealogia dell’Orso Tridentino

E tuttavia, rari cenni ad un’altra sensibilità, altrettanto radicata nell’esperienza alpina, fanno capolino da ogni parte nella letteratura ottocentesca. Se la storia dell’orso nella modernità è – come sostiene Michel Pastoureau – la storia di un “re decaduto”,15 i testi lasciano intuire che qualche sparuta frangia di nostalgici resiste, si organizza e talvolta fa proseliti, trasmettendo ai posteri una sincera fascinazione per il vecchio monarca dei boschi. Persino a fine ottocento, quando la caccia all’orso è affare di stato, c’è chi intravede nell’orso qualcosa di ben diverso dall’ infesto “devastatore di mandrie” descritto da Bonomi.

Oggi meno di un centinaio di orsi continuano a popolare le montagne trentine. Eppure, la presenza de ‘l’Ors’ rimane profondamente iscritta nella toponomastica locale. Basta ricordare – senza alcuna ambizione d’esaustività – , Val de l’Ors, Ciasa de l’Ors e Busa de l’Ors in Val di Tovel, Pas de l’ors sul Monte Peller, Mandra de l’Ors presso Carisolo, Costa de l’Ors nei dintorni di Stenico, Senter de l’Ors sul Vallesinella, Gesol de L’Ors presso Indovero, Tof de l’Ors a Molveno, Passo Bregn de l’Ors sopra al Lago di Valagola…

 

 

Ci basta passeggiare ancora un pò per la sezione di scienze naturali della biblioteca universitaria di Trento. Scorriamo tre le fila di testi del celebrato Bonomi – Avifauna tridentina (1884), Nuove contribuzioni all’avifauna tridentina (1889) – e ci lasciamo alle spalle L’utilità dei boschi (1901), testo paradigmatico di un approccio decisamente economicista verso il “patrimonio naturale” in cui l’orso trova ben poco posto. Pochi metri più avanti, estraiamo dagli scaffali L’Orso Trentino: cenni storico-naturali (1886) dell’autodidatta valsuganotto Francesco Ambrosi, a lungo direttore del Museo di Trento e socio fondatore della Società Alpinistica Trentina.

Scrive l’Ambrosi nella conclusione del suo breve volume di studi sull’orso trentino: “La caccia all’orso continua nel Trentino in quelle parti dove l’orso non ha preso ancora un definitivo congedo. [..] La guerra che gli si fa è una guerra a morte; e ognuno sa di che potenza sia l’uomo civile. Ei vuole ciò che vuole, e volendo vince, benchè le sue vittorie non siano sempre condotte con quella assennatezza di consiglio che vuole la Natura. Ella ha scopi che di sovente vanno al di là dell’umana previdenza, e guai a chi li torce! Le sue vendette sono pronte e terribili, e nessun uomo, per quanto potente egli sia, non arriva a scansarle”.16 Ambrosi guarda con preoccupazione ad un futuro prossimo venturo in cui l’orso sarà finalmente scomparso dalle montagne trentine. Per lasciare cosa?

Per rispondere a questa ulteriore domanda, sfogliamo The Italian Alps (1875), dell’esploratore e letterato inglese Douglas William Freshfield: uno splendido resoconto, che riassume una decina d’anni di viaggi esplorativi sulle Alpi del versante meridionale. Il libro trasmette una fascinazione romantica verso l’arco alpino e – in largo anticipo sui tempi – un’immagine dell’orso che diventerà senso comune solamente con la fioritura dell’alpinismo moderno.

Ogni anno, in occasione del carnevale alpino, l’Orso di Segale torna a correre per le vie di Valdieri. L’Orso spaventa i bambini, fugge dai domatori, importuna i passanti, evita l’acquasanta dei frati esorcisti: il suo risveglio dal letargo comunica alle persone che la stagione buia sta per finire. Al termine della festa l’Orso di Segale fugge, allontanandosi all’orizzonte nonostante gli sforzi e i richiami del domatore.17 Foto: G. Bernardi.

 

L’orso qui appare non come creatura selvaggia e demoniaca (come nel tardo periodo medievale), né come specie dannosa all’economia locale di sussistenza (come in tutto il periodo moderno), ma piuttosto come un ormai raro ed evocativo relitto di tempi antichi, capace di arricchire di fascino l’ambiente montano, ed emozionare il viaggiatore con un senso mistico, panico e sublime. Descrivendo l’alta Val di Cluozza, Freshfield scrive: “This valley has the attraction of being one of the few recesses of the Alps where bears are ‘at home’, even if they will not always show themselves to visitors. […] The dense pine woods, the bold bare peaks around and, above all, the romantic flavour imparted to the whole by the possibilities of bears, gave an unusual zest to our midday meal”.18

Risuona nelle riflessioni di Freshfield, che sarà poi a lungo presidente della prestigiosa Royal Geographical Society e dell’Alpine Club – una minore attenzione per il disvalore economico rappresentato dalle devastazione del plantigrado, ed una maggiore attenzione per il valore affettivo, immaginario, e spirituale della presenza ursina. La presenza dell’orso – seppure invisibile e silenziosa – pervade il territorio, stimola i sensi, provoca un risveglio, un’inusuale presenza.

É un’intuizione che hanno in molti. Quasi un secolo dopo Freshfield, il naturalista ledrense Graziano Daldoss denuncia l’incipiente estinzione dell’orso tridentino e giustifica cosí i suoi appelli per una urgente operazione di ripopolamento: “Quando percorriamo un bosco abitato dall’orso”, scrive, “tutti i fruscii ci suggestionano, tutte le ombre ci rendono cauti e guardinghi. La paura e la curiosità di trovarci di fronte lo yeti delle nostre montagne, rende ogni sensazione più penetrante. Un’orma, un graffio, gli escrementi […] diventano preziosi come fossili d’epoca al limite tra due ere: l’era in cui dominavano gli animali e l’era dei boschi rinsecchiti, ove gli animali non si incontrano più”. Per questo, conclude Daldoss, “la scomparsa dell’orso dalle nostre montagne è un danno incolmabile”.19

Per Pierpaolo Pasolini la “scomparsa delle lucciole”, tra gli anni sessanta e settanta, coincise e contribuí ad una profonda mutazione antropologica del popolo italiano, ormai urbanizzato e consumato dal consumismo.20 Per Graziano Daldoss, la scomparsa dell’orso dalle nostre montagne indica la fine di qualcosa di altrettanto profondo, non quantificabile economicamente, né replicabile tecnologicamente.

Sparisce cosí ciò che Reginal Grégoire – in un memorabile testo dedicato alle descrizioni dell’eremitaggio sulle foreste alpine offerte dalle agiografie del secolo VI e VII – ha chiamato “la foresta come esperienza religiosa”: “luogo della costante allerta”, spazio della tensione costante, teatro di un pericolo aleggiante che ci spinge a porre tutta la nostra attenzione al circostante-presente.21

Eliminare l’orso equivale ad eliminare ciò che rende le foreste alpine uno spazio sui generis, culturalmente specifico, esperienzialmente altro rispetto al parco cittadino, o ai campi incolti del piano padano. Si perde cosí l’anima loci di queste montagne. Con essa rischia di tramontare una grande epopea alpina ed un’intera ‘forma di vita’.

M49 ripreso da una fototrappola posta ai pendii della Marzola, dopo la sua prima fuga dal Casteller, nella notte di Martedí 16 Luglio 2019. Il numero complessivo di orsi presenti sulle Alpi Tridentine è stimato essere oggi tra gli 82 e i 94. Dal 2003 ne sono deceduti 34, di cui 15 sono morti a causa di abbattimenti legali ed illegali.

 

O forse è possibile che la ricomparsa dell’orso tra le nostre montagne sia un timido ed inaspettato segnale che un’altra vita è per noi ancora possibile? Restituire l’orso alla montagna e la montagna all’orso. Può essere questo un primo passo verso una pratica consapevole di rinselvatichimento degli spazi extraurbani ma soprattutto del nostro modo-di-essere in essi? Lasciare spazio e tempo ad un’ingombrante ombra su cui non abbiamo pieno controllo , ma che forse – proprio per questo – ci offre la possibilità di accettare l’insicurezza come parte constitutive del nostro essere-nel-mondo. Può essere questo un modo di rinunciare all’ossessione securitaria che predica l’eliminazione di qualsiasi fonte di rischio, il controllo di ogni forma di vita, e la soppressione di ogni diversità? Può l’orso insegnarci a percorrere il mondo con l’attenzione e la piena presenza di cui non sembriamo più capaci?

 

L’autore


Amedeo Policante è un saggista e storico del pensiero politico basato tra le Dolomiti del Brenta e l’Università di Warwick nel Regno Unito. È l’autore di due recenti opere monografiche: I Nuovi Mercenari: Mercato Mondiale e Privatizzazione della Guerra (Ombre Corte, 2014) e The Pirate Myth: Genealogies of an Imperial Concept (Routledge, 2016). Il suo ultimo progetto di ricerca, supportato da un borsa di ricerca presso l’Università di Warwick, è in uscita per Pluto Press con il titolo provvisorio: Produzione Molecolare.

Citazioni

[1] Pianesi, L. (2020) ‘Fugatti denunciato per maltrattamento di animali’, Il Dolomiti, 1 Ottobre. Available at: https://www.ildolomiti.it/politica/2020/m49-non-si-alimenta-e-scarica-le-energie-contro-la-saracinesca-m57-ripete-movimenti-in-maniera-ritmata-dj3-e-nascosta-fugatti-denunciato-per-maltrattamento-di-animali

[2] Trentino (2020) ‘Centro di Recupero della Fauna Alpina di Casteller’. Available at: https://www.trentino.com/it/sport-e-tempo-libero/bambini-e-famiglia/animali-in-trentino/centro-di-recupero-della-fauna-alpina-di-casteller/

[3] Lega Antivivisezione (2020) ‘Ispezione Carabinieri: Psicofarmaci su Orsi Casteller’, Available at:  https://www.lav.it/news/cc-forestali-psicofarmaci-orsi-castellerx

[4] PNAB – Parco Nazionale Adamello Brenta (2010) L’impegno del Parco per l’Orso: Il Progetto Life Ursus, Rovereto: Manfrini. Available here: https://www.pnab.it/wp-content/uploads/2018/02/parco_documenti18_orso.pdf

[5] Corriere della Sera (2006) ‘Germania: L’orso “Bruno” è stato ucciso”, available at: https://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2006/06_Giugno/26/bruno.shtml

[6] Tondo, L. (2020) ‘Papillon the bear: how the ‘escape genius’ sparked a national debate in Italy’, Guardian. Available at: https://www.theguardian.com/environment/2020/oct/05/papillon-the-bear-how-the-escape-genius-sparked-a-national-debate-in-italy-aoeGuardian

[7] Montanari, M. (1988) ‘Uomini e orsi nelle fonti agiografiche dell’alto medioevo’, in Andreolli, B. e Montanari, M. Il bosco nel medioevo, Bologna: Clueb, p. 64

[8] Ibid. p. 66

[9] Varga, D. (2009). ‘Teddy’s Bear and the Sociocultural Transfiguration of Savage Beasts into Innocent Children, 1890-1920’. The Journal of American Culture, 32(2): 98-113.

[10] Benvenuti, A. (2017). ‘Il Santo, il Saltus e l’Prso. La Desacralizzazione Cristiana della Natura’. Storie e Linguaggi, 3(2), p. 295

[11] Finocchi, A. e Mussi, D. (2002). Sulla pelle dell’orso: la caccia nei documenti del passato e nelle memorie ottocentesche di Luigi Fantoma. Arco: Edizioni Sommolago. pp. 6-33

[12] Sicheri G.B. [1853] (1995) La caccia sull’Alpe, Stenico: Edizioni Circolo Sicheri, p. 12

[13] Zeni, M. (2016) In Nome dell’Orso: Il declino e il ritorno dell’Oso bruno sulle Alpi, Gavi: Edizioni Piviere, p. 112

[14] Ansa (2011) ‘Lega Nord, banchetto con carne orso; Pdl, fermate scandalo’. Available at: https://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cronaca/2011/07/01/visualizza_new.html_810143620.html

[15] Pastoureau, M. (2008) L’orso. Storia di un re decaduto, Torino, Einaudi, 2008

[16] Ambrosi, F. (1886) L’Orso Trentino: cenni storico-naturali, Trento: Scotoni e Vitti Edizioni, p. 43

[17] Agus C.A. (2015) ‘Il tempo dell’orso, l’orso nel tempo: L’exemplum dell’arco alpino occidentale’, in E. Combi-D. Ormezzano, Uomini e Orsi: morfologia del selvaggio,  Torino: Accademia University Press: 15-40.

[18] Freshfield, D.W. (1875) Italian Alps: Sketches in the Mountains of Ticino, Lombardy, the Trentino, and Venetia, London: Longmans Green, p. 86

[19] Daldoss, G. (1981) Sulle Orme dell’Orso. Uno Studio Sull’orso Bruno del Trentino. Biologia della specie, origine e distribuzione geografica, Trento: Editrice Temi, p. 21

[20] See Pasolini, P. (1975) ‘Il vuoto del Potere’, Corriere della Sera, 1 Febbraio, p. 1.

[21] Grégoire, R. (1990) ‘La Foresta come Esperienza Religiosa’, in L’ambiente vegetale nell’Alto Medioevo, Spoleto: Edizioni del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, p. 665

Bibliography

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