Con l’arte dentro un cuore di pietra
Che ruolo può avere l’arte pubblica nel costituire l’esperienza di un luogo? Per quindici anni, Mili Romano ha curato Cuore di Pietra, una serie di interventi multidisciplinari nel centro emiliano di Pianoro, nell’area metropolitana bolognese. Trasformato nella sua morfologia da processi di riqualificazione imposti dall’alto, questo piccolo villaggio, già profondamente colpito dagli eventi del secondo conflitto mondiale, ha trovato nell’arte pubblica un’opportunità di aggregazione e consapevole resistenza sociale. Questo è il racconto di un progressivo, personale, passaggio dalla ricerca teorica sulla letteratura e l’antropologia urbana all’agire nella città attraverso l’arte, in una prassi fondata su pratiche di progettazione partecipata.
Dal 2005 e per quindici anni ho curato a Pianoro, un paese dell’area metropolitana di Bologna, Cuore di pietra, un progetto di arte pubblica che, ogni anno, ha creato segni temporanei e installazioni permanenti alla cui realizzazione artisti di volta in volta diversi hanno lavorato in collaborazione con scuole, associazioni e abitanti. Nel corso del tempo, il progetto ha disseminato per le strade del centro, nelle aree verdi e in quelle industriali un percorso di arte contemporanea relazionale e partecipativa.
Statale 65 che da Bologna porta a Firenze. Pianoro è un paese che ha avuto più vite. Punto strategico nelle retrovie della cosiddetta linea gotica, il sistema di fortificazioni costruito dall’esercito tedesco e presto teatro di pesanti combattimenti tra nazisti e alleati, con l’avanzare degli angloamericani da sud la zona di Pianoro si trovò presto al centro di violente battaglie, bombardamenti aerei e cannoneggiamenti. In un lasso di tempo relativamente breve, tra il 1944 e il 1945, queste portarono ad una distruzione pressoché totale del borgo – uno dei più devastati d’Italia.
Fondamentalmente irrecuperabile, è a soli tre chilometri a nord da queste macerie che un nuovo villaggio, Pianoro Nuovo, fu ricostruito nell’immediato dopoguerra per dare alloggio agli sfollati dalle campagne e da Bologna. A dare un’impronta al luogo non furono tuttavia soltanto i nuovi edifici, ma anche l’eco della lotta di Resistenza che si era combattuta nella zona, che fu, ed è ancora oggi, forte elemento coesivo.
Ma anche questo nuovo paese, sorto su piano urbanistico dell’architetto Alberto Legnani, finì presto con il conoscere un nuovo tipo di metamorfosi. Il 2005 segnò l’inizio di una profonda trasformazione urbanistica del centro del paese. Il nuovo piano di riqualificazione, con l’abbattimento di tutta l’area della vecchia piazza del mercato e degli edifici costruiti nel dopoguerra per far posto a nuovi spazi e a edifici più moderni, efficienti e redditizi, era vissuto da gran parte degli abitanti come un trauma.
Vecchi rituali di vicinato, giardini e orti da curare insieme, percorsi e spazi comuni all’aperto dove le persone si ritrovavano, sedie e tavolini per giocare a carte per strada vennero cancellati nell’arco di pochi mesi.
Niente di nuovo in questo, è ciò che accade abitualmente fuori dai confini dei centri storici monumentali, in ogni grande e piccola città improntata alla legge dell’impermanenza. Nuovo invece, soprattutto in Italia e allora, il voler trasformare il sicuro oblio di un luogo in consapevolezza critica, intraprendendo una narrazione e creazione artistica corale in fieri.
Gli esclusi ci perseguitano sotto forma di sintomi, scrive Jung. E James Hillman, che lo riprende e lo cita in L’anima dei luoghi, suggerisce di accompagnare le molteplici rimozioni (nel nostro caso anche nel senso fisico di distruzione e cancellazione di intere aree delle città), aprendo creative e prolifere domande sul luogo. Non solo perché le sue memorie non vengano rimosse ma anche perché, con il coinvolgimento in un lavoro di progettazione comune, possa riaffiorare dell’altro, al quale il più delle volte non si dà voce. E perché ciò e chi è rimosso, in questo caso gli abitanti con tutte le loro storie, dall’oblio possano uscire e, con un po’ di terapeutica leggerezza, divenire attori del cambiamento.
Già dalla metà degli anni ’90, curando Accademia in stazione, con gli interventi dei giovani allievi dell’Accademia di Belle arti di Bologna alla stazione ferroviaria per ricordare la strage nera del 1980, avevamo intrapreso una sfida contro l’idea di scultura o di opere monumentali meramente decorative in nome di interventi più legati al contesto e alle specificità anche antropologiche del luogo.
In nome di una memoria (in quel caso quella drammatica di un eccidio) che si trasformasse in spinta vitale, e con l’idea che la public art possa essere uno stimolo forte al cambiamento culturale e al miglioramento della qualità della vita nei nostri spazi pubblici, ero con molta convinzione passata dalla teoria e dalla “rappresentazione” all’azione.
L’arte pubblica può lavorare sui luoghi e su chi li abita, affinché ogni segno, effimero o permanente, sia portatore di nuovo senso e di nuova memoria. “Non per profitto”, come scrive Martha Nussbaum. In controtendenza rispetto ad un modello di società improntata tutta e sempre più sul consumo e l’indifferenza, l’arte pubblica si insinua nel tempo lento della trasformazione degli spazi pubblici in luoghi affettivi, dove relazioni, emozioni e esperienze collettive contribuiscono a far affiorare una nuova anima delle città.
Cuore di pietra è nato così, inizialmente dalle mie passeggiate con videocamera e macchina fotografica e come un mio gesto poetico-politico di artista. Avevo disseminato un manifesto rosso che riprendeva i temi della Resistenza, questa volta degli stessi edifici che venivano abbattuti. Il manifesto era negli spazi di affissione fra Pianoro e Bologna ma anche lasciato fuori delle porte degli appartamenti ancora abitati, con l’invito agli abitanti a metterlo fuori alla finestra come segno della volontà di iniziare a collaborare al progetto.
Niente memoria nostalgica però, niente retorica, ma ricordi riattivati e raccontati in uno scambio quotidiano con gli artisti. Uno dei presupposti metodologici fondamentali di Cuore di pietra è stata l’idea di un lavoro, quello dell’arte nella città, che dovrebbe crescere con l’impegno e la responsabilità di tutti, da seguire nel tempo lungo della progettazione (da parte dell’artista), della realizzazione (da parte del curatore e dell’artista) e della manutenzione e cura (da parte ancora del curatore, dell’amministrazione pubblica e dell’artista).
Un lavoro in progress, in cui chi si lascia coinvolgere deve elasticamente “lasciarsi formare” e contaminare dallo spazio, dal contesto e dai suoi imprevisti. Un lavoro di trasformazione e sedimentazione, senz’altro impegnativo e che poco si confà a un’idea di arte che si ferma all’evento spettacolare, e soprattutto ai tempi di rapido consumo nei quali il sistema dell’arte si muove.
Piuttosto, un lavoro “nelle pieghe”, ma le cui manifestazioni visibili acquisiscono un senso profondo in coloro che hanno contribuito a realizzarlo.
“Alto” e “basso” si fondono, dialogano e collaborano. Mi piace pensarlo come la lenta tessitura di una trama umana, artistica, sociale, antropologica in divenire. In fondo, nella public art il “metodo”, se di metodo si vuol parlare, in fondo è solo un percorso, una passeggiata, se seguiamo ancora ciò che ci dice Hillman. Una passeggiata che si apre agli imprevisti.
E la passeggiata, mia e degli altri artisti per esplorare gli spazi pubblici in fase di progettazione, è stata ed è continuamente ripetuta con gli abitanti, con i bambini delle scuole, con i giovani artisti dell’Accademia coinvolti in percorsi didattici, con il pubblico in visita durante i vari opening.
Iniziato sotto la pressione di un’emergenza urbanistica, Cuore di pietra nei tanti anni di attività si è trovato a focalizzarsi su dei temi che affioravano naturalmente dagli incontri con la comunità Così, dagli anni della crisi economica è nato Cuore di pietra/lavoro con un’intensa relazione con 36 aziende e industrie locali, e dall’emergenza migranti Onde dorate/golden waves sull’accoglienza e l’integrazione dei migranti ospiti nel territorio.
Adesso, e con questo concluderò, ecco il racconto di alcune delle tantissime opere realizzate.
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Andreco, Una celata resistenza ontologica (icone dal lavoro resistente)
Un insieme di icone che ricordano la Resistenza e il lavoro di ricostruzione post bellico nell’area di Pianoro. Attraverso le testimonianze dei tanti abitanti anziani vissuti in quel periodo, Gianpiero, Luciano partigiano Morgan, Marisa, i giovani artisti dell’Accademia con Andreco hanno disegnato ognuno un segno che rinvia a quei racconti:
Dalla bicicletta delle staffette partigiane agli scarponi per le dure camminate, dal chiodo a tre punte per danneggiare e fermare le camionette naziste, regalato poi ad Andreco da Andreina che l’aveva ricevuto dal padre, alle mani di donna che offrono il pane o il cibo, fino ai due segni rituali di Andreco: il partigiano e l’albero che affonda le sue radici nelle profondità della terra e si leva al cielo.
“Il modo più efficace per far vivere i sentimenti della lotta partigiana nel tempo è metterli in pratica nel presente. I sentimenti che hanno portato donne e uomini a reagire e a lavorare contro la loro sopraffazione e per la conquista della libertà esistono nel profondo di ognuno di noi e non bisogna aspettare una guerra per accogersene”.
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Mili Romano con Studio Ciorra e Sabrina Torelli, Passaggio di Luce
Gli abitanti del quartiere hanno espresso il desiderio che venisse ricordato il loro piccolo gazebo di legno che stava nel vecchio giardino e nel quale erano soliti ritrovarsi per giocare a carte nelle sere d’estate. Così è nato Passaggio di luce, un padiglione in ferro e vetro colorato e trasparente. Fragilissimo, eppure da quindici anni è ancora lì, mai vandalizzato.
E’ stato lo spazio in cui fin da subito generazioni e culture diverse hanno trovato un luogo d’incontro di una rinnovata socialità, accompagnati da stupefacenti giochi di colore che la luce filtrata dai vetri disegna il giorno e la notte originando una sorta di cromoterapia spontanea.
Su alcuni dei vetri, riportata in sabbiatura e stilizzata una antica mappa del territorio con al centro L’uomo colorato e portatore di armonia, personaggio di una fiaba scritta e disegnata dai bambini con l’artista Sabrina Torelli.Un ragazzino, il giorno dell’inaugurazione, nel 2010, ha detto che quel piccolo padiglione colorato era “lo spirito protettore della città”, l’anima della nuova Pianoro, e che ci vorrebbe un “passaggio” di luce in ogni città.
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Sandrine Nicoletta, In che senso gira il pianeta e io con lui?
Il titolo è dato dalla frase che l’artista ha inciso su un grande masso portato dalla vallata attraversata dal fiume locale. A partire da quell’interrogativo e da quel masso, molti giovani e bambini delle scuole hanno elaborato narrazioni fantastiche, prodotto storie e composizioni musicali (con Anna Troisi) o cartoni animati. I ragazzi continuano a giocarci sopra e intorno.
Quel masso “diviene” e si trasforma, lontano dall’essere “monumento” statico e “invisibile”. Quando lo abbiamo presentato al pubblico, nel 2007, il giardino era ancora un cantiere, pioveva e c’era fango. Ho visto stupore in chi si aspettava di venire a vedere “bellezza”.
Dissi allora che quel cantiere e l’arte contemporanea nelle città, cantiere sempre aperto, per forza di cose si somigliano. E che La Bellezza sarà convulsa o non sarà, come scrive André Breton in Nadja. Una bellezza viva e in cambiamento.
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Anna Rispoli, Zimmer Frei, Mio!
Una luminaria fatta dei lampadari che gli abitanti delle vecchie case ci hanno donato prima di trasferirsi nella casa nuova. A ogni lampadario è legata una storia, quella di Giulia, di Lina, di Elena, di Gianpietro, di Arkia e dei tanti altri che hanno raccontato.
La luminaria è rimasta installata per molti mesi sotto il portico del Comune e in altri due portici lungo le strade del nuovo centro. Si era deciso di mantenerla come installazione permanente ma una tempesta d’agosto ha rotto un lampadario, fortunatamente senza danno ai passanti. Così il progetto è cambiato, facendo fronte all’imprevisto. Un’opera nello spazio pubblico (e l’artista che l’ha fatta) dev’esser pronta ad affrontare gli sgambetti della natura o della casualità.
Un giorno di gennaio del 2009, in piazza, si è svolto Tuo!, un’asta che ha distribuito ai migliori offerenti quei pezzi unici dell’installazione: ma niente denaro in cambio in questo caso, soltanto scambi in natura (pasta fatta in casa, tre sedute di agopuntura, un servizio fotografico o altro), e tempo e servizi per Cuore di pietra. In fondo la public art ha spesso a che fare con il dono e la gratuità dello scambio: il vecchio rito antropologico del Kula per le strade di città.
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MP5, City look at city
In due piattaforme di 20 mq ciascuna, che ricostruiscono la planimetria della vecchia piazza, si trovano le palazzine in miniatura sulle cui pareti esterne sono riprodotti a fumetti giganti oggetti, mobili, rituali domestici degli abitanti delle vecchie case. Questi fumetti, disegnati dall’artista insieme agli studenti di alcune classi delle scuole medie e dopo molte visite e interviste agli abitanti, erano previsti come un’installazione temporanea sulle palizzate dei cantieri, ma sono diventate poi un’installazione permanente. Importante in questo la dimensione temporale, di trasformazione e di evoluzione che un progetto può acquisire.
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Valeria Talamonti, Ricordati di me
Un insolito utilizzo di uno specchio che per l’artista diventa assunzione di un’identità altra e di un paese in trasformazione. Una performance che, nel corso di un’opening, ha accompagnato la passeggiata chiedendo al pubblico ed ai passanti di specchiarsi.
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Anna Rossi. Made in Pianoro
Oggetti e scarti di produzione, fotografati attraverso un taumascopio ripropongono, su dei cartelloni stradali, che uniscono il centro del paese alle aree industriali, l’oggetto reale e la sua trasfigurazione in microcosmo fantastico.
Footnotes & references
La foto di apertura, con il manifesto rosso di Mili Romano alle finestre è di Alessandra Andrini.
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