Oltre che una rinomata località balneare, Rimini è anche la città natale di un gigante: parliamo del suo grattacielo, di ventotto piani e più di sessant’anni, che si staglia su una distesa di case molto più basse, ben consapevole della sua eccezionalità. In questo contributo per Anima Loci, Marco Bertozzi riflette sulla realizzazione del suo film Cinema Grattacielo (2017), girato nel corso degli anni non solo in qualità di regista, ma anche come inquilino del palazzo. Quello che ospitiamo è un’affascinante e variegata panoramica: sul film, sul grattacielo e sul mutevole rapporto che l’edificio ha intrattenuto e continua ad intrattenere con la sua città.

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Da sedici anni abito al grattacielo di Rimini e quasi subito ho pensato di farci un film. Le prime immagini le ho girate nel 2004, durante il trasloco, sequenze di pochi minuti alle quali si sono aggiunte riprese d’incontri amicali e riunioni condominiali, guasti degli ascensori e (piccoli) terremoti, feste negli appartamenti e tramonti spettacolari…

Anche le tempeste si vedono e si sentono bene, a cominciare dagli squarci di lampi sul mare, all’orizzonte. Una cavalcata di nero pece e bianco abbagliante, con nuvole galoppanti, sabbia volante e vento che sibila forte, sino a fare tremare gli infissi e creare paurosi risucchi d’aria. Nel piazzale del grattacielo quasi non si riesce a camminare, le insegne barcollano, tutto sembra potersi involare in cielo.

Una volta, d’inverno, ho visto alcuni uomini lontanissimi che cercavano di liberare la propria auto dalla neve. Dall’alto, sembrava un’impresa titanica, con l’antico Ponte di Tiberio a incorniciare la scena, mentre il fascio dei binari raggelati sembrava una abbandonata stazione del Polo Nord. Dall’altro lato, la spiaggia era una steppa di luce accecante, con una finta palma in plastica piegata dalla neve, mentre uomini ragno lavoravano su precarie impalcature all’orizzonte. 

Fotogramma del film “Cinema grattacielo”. Immagine di apertura: “Marco Bertozzi”, di Alessandra Chemollo, per gentile concessione dell’autrice.

 

Mi ha sempre affascinato l’esplorazione dei modi in cui le immagini ci influenzano. Immagini reali ed immagini mentali (ma non sono forse reali anch’esse?) dirigono le nostre percezioni e i nostri comportamenti: il modo di stare al mondo, di viverne lo spazio, di attraversarne gli habitat. Per me un legame antico, che ho cercato di affrontare sin dalla mia tesi di laurea in architettura (Lo scenario della vacanza nella metropoli balneare romagnola), poi con gli studi dottorali sull’immaginario urbano nel cinema delle origini, e con le ricerche post dottorali, sullo spazio e l’architettura nel cinema italiano. 

Ma se penso ai miei film, e me ne rendo conto ora scrivendo per Anima Loci, si tratta sempre di riflessioni che legano una o più biografie a un luogo, scavando in quel groviglio di identità plurali capaci di definire lo spirito di una città (Rimini, Lampedusa, Italia, 2004, Appunti romani, 2004 o Predappio in luce, 2008), di siti altamente simbolici (Profughi a Cinecittà, 2012), o di una casa particolare, la casa in cui vivo (Cinema grattacielo, 2017, Mi sono svegliato, 2020).  

Quello che non si pensa mai è che abitando in un grattacielo ci si affaccia a un cinema naturale, sempre acceso, in panavision, quello dello spazio aperto, quasi infinito, davanti a se. E che, all’opposto, per chi è fuori il mistero sta nel groviglio miracoloso degli interni, nel formicolio delle genti che lo abitano. Si immaginano chissà cosa: anche perché la casa esiste nella fantasia prima ancora che nella sua concretezza e il grattacielo è ben più di una macchina per abitare: diventando, di volta in volta, una torre di guardia, un’astronave, l’ago della bussola, un monolite, una stèle, il limbo, un dito puntato, insomma, quel limite tra cielo e terra dove si insinuano altri possibili…

Forse per questo, sin da piccolo, avrei voluto entrare in tutti gli appartamenti, conoscerne gli abitanti, vedere i giocattoli degli altri bambini, i balconcini, gli specchi. Dormirci per svegliarmi alla luce della notte e a quella del mattino, sentire il rumore del treno e degli ascensori. Per me il grattacielo era un albero della cuccagna irraggiungibile, il condensatore energetico di Rimini città luna-park, la mitica astronave di un luogo che sembrava promettere una vacanza perenne.

Teresa Chiauzzi e Giovanni Casadei, fotogramma del film.

 

Basta rileggersi la stampa d’epoca, o ascoltare i ricordi dei suoi primi abitanti, per rendersi conto di quale alone in stile Dolce Vita aleggiasse intorno alle tecnologie e ai fantastici appartamenti, sospesi in cielo, del nuovo grattacielo. «Tutti i comforts moderni… Tutti i requisiti per un soggiorno di collina al mare» declamava un depliant degli anni sessanta. «Aria condizionata, finestratura panoramica, ascensori veloci automatici, pavimenti in Dalflex» per ricchi milanesi o per la buona borghesia bolognese, status-symbol di un’appartenenza di classe e di una fiduciosa modernità nazionale. D’altronde, gli elicotteri che andavano da Rimini all’antica Repubblica di San Marino lo sfioravano tre volte al giorno. 

E il controcampo non era meno interessante, con i concorsi canori, le sfilate di moda, gli sfreccianti sci d’acqua fra i turisti o le magiche serate in dancing animati da magic-vocalist come Fred Buscaglione. Oggi penso che crescere a Rimini in quegli anni, gli anni Sessanta, sia stata un’esperienza tragica ed esaltante, qualcosa che sembrava esaudire il desiderio di una favola molto terrena. Sapete, la mia scuola elementare era un albergo – l’Hotel Olimpo – e a inizio giugno i banchi venivano tolti per far posto ai letti dei turisti. 

Erano anni in cui si profetizzava un grattacielo per ogni città della costa e a Rimini, capitale europea della vacanza, si parlava addirittura di una «città di grattacieli». Una felice frenesia confermata dalle immagini di tanti home movies: con gli operai che salutano dall’alto del tetto del grattacielo appena terminato o i piper con la coda, quelli che passavano per fare la reclame dei prodotti moderni, e invertivano la rotta proprio lì, sul tetto del gigante. 

Noi bambini guardavamo in su, verso il grattacielo, per aspettare la manna che un buon vento ci avrebbe garantito: lecca lecca e cedole per formaggini, omini Pirelli e mucche carolina gonfiabili… Col vento giusto potevano superare milioni di bambini in spiaggia – quelli che si perdevano anche, annunciati dalla Publiphono – per planare direttamente da noi, in quei campi abbandonati vicino alla ferrovia, fra l’Italia contadina e gli scenari alberghieri della città nuova. Un orto dei miracoli in cui bastava chinarsi a raccogliere i celesti frutti di un altro miracolo, quello italiano. Tutto gratis, direttamente dal cielo, una messe leggendaria che sembrava non finire più. 

Fotogramma di Alessia Travaglini, animazione per il film.

 

Eppure quella felicità, quella fiducia cieca nel futuro, quella sterminata voglia di vivere nasceva dalle violente ferite della guerra. Una esuberante voglia di vivere aveva origine da una tragedia sterminata, quasi 400 bombardamenti, una delle città più distrutte dalla seconda guerra mondiale… Una ferita profonda, che forse non si è mai davvero rimarginata e che ha portato a distruggere anche ciò che ancora intatto viveva (come l’antico Kursaal). Ecco, su quella ferita, dove le bombe si erano più accanite, Veniero Accreman, l’allora sindaco del PCI, decise l’impresa impossibile: una grande sfida alla città distrutta, far nascere un grattacielo laddove c’erano stati solo crateri, morti, distruzione. 

Non so se esiste un legame metaforico fra la fondazione del nostro grattacielo e l’Italia moderna, quella uscita distrutta dalla guerra e arrivata a credersi un paese moderno, la sesta, la quinta potenza mondiale. So che il grattacielo nasceva nello stesso anno de La dolce vita di Fellini e che in quegli anni sembrava esserci una speranza folle, quasi sfacciata, per tutti: quella condizione che ti prende la testa, l’ebbrezza del vivere alto, staccati da terra, e che negli stessi anni portava l’Italia, e gli italiani, a pensare di essere diventati modernissimi. Come se questo gigante, con la galassia dei suoi “fortunati” abitanti, simboleggiasse un’onda emotiva ben più vasta. 

Ma quella torre da «nuovo mondo» – alta 100 metri, progettata dall’architetto istriano Raoul Puhali quale icona di una fiduciosa modernità – cosa stava diventando con il passare degli anni? Mentre Rimini si faceva laboratorio internazionale della pop culture legata alla vacanza di massa, il suo grattacielo razionalista rischiava di non riuscire a fare più i conti con una storia sempre più ibrida, nella ridefinizione antropologica a cui la città, e l’Italia, andavano incontro.

Così, sono sufficienti due decenni per volgere l’idea di un “luogo di classe” nel suo opposto: da paradiso tecnologico ad economostro; da esempio di convivenza sociale a catalizzatore di paure e suggestioni catastrofiste. La decadenza del grattacielo si associa a presenze malavitose, ai torbidi giri della prostituzione ben tratteggiati da Valerio Zurlini nel film cult La prima notte di quiete (1972), a scapoloni d’oro che ne fanno il locus amoenus per libertinaggi tardo-vitelloneschi. 

Il prezzo degli appartamenti si abbassa e arrivano i primi stranieri, spesso con lavori precari. Negli anni ottanta e novanta a Rimini nessuno vuole più abitare al grattacielo: il suo immaginario è segnato da valori negativi, suffragati da dubbi strutturali – “mi sa che crolla”, “dice che i pilastri non reggono più”, “quando c’è vento sembra che venga giù” – e da alcuni sbandamenti gestionali nella gestione di una torre di quasi 200 appartamenti. 

L’elenco dei reclami è sterminato e le affollate assemblee di condominio servono soprattutto a ribadirli: ascensori difettosi, riscaldamento che non riscalda, tubi che esplodono, inspiegabili guasti elettrici, contese sugli spazi del parcheggio, sacchetti gettati dai piani alti alle terrazze del primo piano, l’aria stagnante dei corridoi che non se ne va…  L’amministratore che fugge in America latina con i soldi dei nuovi ascensori e l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001 danno al grattacielo il colpo di grazia.

Lezione di cinese, Raffaella Vaccari e Lisa Giulianelli con il maestro Chen Yi.

 

Poi, lentamente, la parabola si inverte. Oggi una umanità eterogenea vive al grattacielo: l’ultimo censimento dice che siamo 17 nazionalità differenti ma nessuno sa davvero in quanti ci abitiamo. E negli ultimi anni sono arrivati giovani precari cognitivi – grafici, montatori, musicisti, filmmaker… – e molte coppie con figli, senza spendere quella montagna di denaro che un indecente mercato immobiliare richiede per godere di una piccola casa. 

Qui gli appartamenti costano la metà rispetto ai dintorni e sei sempre vicino alla stazione e al porto canale, al Tempio Malatestiano e al Grand Hotel felliniano. Così il grattacielo costruisce un immaginario sociale denso di echi, e quel reticolo di lingue che aleggia nei pianerottoli ricorda sempre più l’esperienza di Babele, segnandone di volta in volta un’idea di rifiuto o esaltazione, condanna o curiosità, vergogna o visionaria leggerezza. 

Un grattacielo alla frontiera dei continenti, un grattacielo volante e colorato, un grattacielo hippie, indie, magicamente ibrido. Nei suoi corridoi transitano i popoli dell’Italia contemporanea, capaci, grazie a nuove forme di solidarietà, di resistere alla crisi e alla solitudine, imposte dalla pandemia: una cosa mai vista prima e che ci obbliga a guardarci meglio, dentro, possibilmente senza esotismo.  

Alcuni anni fa, per i cinquant’anni del grattacielo, avevamo organizzato una grande festa. C’erano mille persone a vedere l’esposizione dei progetti originali; ad ascoltare gli abitanti-musicisti riuniti nella Skyscraper Orchestra; a mirare gli home movies dei Sessanta, accompagnati da cibi dal mondo; a orecchiare le memorie di cittadini che hanno dovuto, volenti o nolenti, farci i conti. 

Era venuto anche l’ex sindaco Veniero Accreman, ora scomparso, a ricordarci il momento della sua nascita: un “compromesso-storico-edilizio” che avrebbe dato lavoro a centinaia di famiglie per tre anni, una specie di Ina-casa volante, rivolta all’insù, verso l’Europa. Un momento di festa importante – la fine del film? Il suo inizio? – fra pezzi di memoria resistente, un presente in mutazione vertiginosa, il futuro di una città che vuole essere ancora viva e pulsante.

Dunque come mostrare tutto ciò? Il rapporto con Rimini, la trama di relazioni, la vita del grattacielo nelle sue espressioni più sottili? Le paure collettive, di chi abita in alto e teme il crollo vertiginoso, l’incendio devastante, l’allagamento finale per l’innalzamento del mare? Forse le finestre a nastro, nella loro successione continua, rimandano già ai fotogrammi della pellicola, all’idea di un cinema naturale?

Non è facile valicare la rappresentazione della buccia del mondo. Non credo alle sirene di un facile realismo e penso sia importante colpire al cuore la realtà per offrirla nei suoi punti più problematici e nascosti: comporre ricognizioni dell’invisibile, in equilibrio fra esigenze contrapposte, fra documentarietà e invenzione, testimonianza e superamento dei limiti del percepibile. 

Marco Bertozzi “astronauta”, fotogramma del film.

 

D’altronde il senso del fare documentari è proprio non sapere cosa succederà. Non volere che la tua opera scaturisca soltanto da una idea predefinita. La bellezza di una sequenza sta spesso nell’accogliere ciò che si manifesta durante, dopo, intorno ciò che avevi previsto. Un cinema in grado d’insinuarsi fra spazi ed esperienze non protette. Un «cinema performance», in cui alcune dimensioni sotterranee possano emergere quali tracce di un racconto inatteso. 

Ecco la possibilità di giocare con la forma, con le opportunità drammaturgiche offerte dal reenactment, dai contributi in animazione (preziosi, di Alessia Travaglini), dal montaggio – fondamentale il lavoro con Ilaria Fraioli, con la quale ho passato alcuni mesi a “scavare”, non solo in termini iconografici, nei sotterranei labirinti dell’idea di abitare. Per questo Cinema grattacielo utilizza anche molteplici materiali d’archivio e la diversa pelle delle immagini costituisce una linea narrativa autonoma. 

Il film mostra la sua lenta modalità di produzione e i cambiamenti tecnologici che si sono susseguiti, utilizzando materiali storici (girati in vari formati), riprese con camere e cassettine MiniDV o DvCam, parti in Betacam, altre in HD, o girate con le GoPro. Una molteplicità di tessiture che cerca di esprimere una molteplicità di punti di vista, di dialoghi possibili fra l’autore, il grattacielo stesso e i suoi abitanti. Sino a immaginarsi una doppia riflessione autobiografica, nel dialogo fra uno dei suoi abitanti – me stesso – e il grattacielo in persona, cui dà voce lo scrittore Ermanno Cavazzoni, sceneggiatore de La voce della luna, ultimo film di Federico Fellini.1

Una architettura che parla, che ci racconta come sta, i suoi malesseri, i suoi desideri, il rapporto con la comunità che lo abita: «Guardate qui, vi sembro normale? No, davvero… perché io mi sento un figlio venuto male… dai… insomma… uno strampalato, tirato su a ceffoni e tondini in ferro, grida e cavi elettrici, fulmini e vapori di cemento. Mi vedete? In una città con case bassine, tre piani al massimo, tutti mi guardano sospettosi e io non posso nascondermi, non posso girarmi da un’altra parte. Sono ossessionato, mi vedono dappertutto, non posso nascondermi».

L’autore


Marco Bertozzi fa parte di quel gruppo di autori che ha contribuito alla rinascita del documentario italiano, con un forte impegno teorico e di promozione culturale. Combina la pratica cinematografia – in film come “Appunti romani”, 2004, “Il senso degli altri”, 2007, “Predappio in luce”, 2008, “Profughi a Cinecittà”, 2012, “Cinema grattacielo”, 2017, “Mi sono svegliato”, 2020 – a una forte componente teorica. Ha insegnato Cinema documentario al Centro Sperimentale di Cinematografia e alla Volontè di Roma, al Conservatorio di Scienze Audiovisive di Lugano, all’Ecole des Medias dell’Università del Quebec a Montreal e, attualmente, all’Università IUAV di Venezia. Tra i suoi libri, L’idea documentaria (a cura di, 2003), Storia del documentario italiano (2008, Premio Domenico Meccoli e Premio Limina quale miglior libro di cinema dell’anno), Recycled Cinema (2012, prima riflessione italiana sul found footage film), Documentario come arte (2018), hanno costituito importanti riflessioni storico-teoriche per un rinnovato approccio al cinema documentario e sono stati adottati in diverse scuole di cinema e corsi universitari. Film curator per rassegne sul cinema italiano (con Villa Medici a Roma, la Cinémathèque del Quebec, il Festival del cinema di Amiens, il Mambo di Bologna…), ha condotto Corto Reale. Gli anni del documentario italiano, un programma in 27 puntate per RAI Storia, e fatto parte, con Studio Azzurro, dell’équipe che ha progettato il Fellini Museum di Rimini.

Note & Citazioni

[1] La voce del grattacielo, nella magica interpretazione di Cavazzoni, rimanda ai tanti amici che mi hanno aiutato a fare il film, dentro e fuori dalla torre. A cominciare dagli abitanti, con cui abbiamo anche messo in scena FLATS. Scene di straordinaria quotidianità in vista di un film sul grattacielo di Rimini, una performance teatrale per avviare il crowfunding del film. Con la direzione di Giovanni Casadei, attore e regista, nonché abitante del grattacielo, lo spettacolo è stato un intenso ibrido tra teatro e cinema, in cui una ventina di abitanti hanno messo in scena, nel maggio del 2015, il loro vissuto nella casa comune. Una specie di teatro documentario, una sorta di autodramma in cui persone di formazione quanto mai varia hanno accettano di rappresentare l’originale comunità verticale di cui si sentono parte.

Fotografie

Le immagini mostrate nell’articolo, in ordine:
1) Immagine di apertura: Marco Bertozzi, fotografia di Alessandra Chemollo, per gentile concessione dell’autrice;
2) Fotogramma del film “Cinema grattacielo”;
3) Teresa Chiauzzi e Giovanni Casadei, fotogramma del film;
4) Fotogramma di Alessia Travaglini, animazione per il film;
5) Lezione di cinese, Raffaella Vaccari e Lisa Giulianelli con il maestro Chen Yi.
6) Marco Bertozzi astronauta, fotogramma del film.

Sitografia

Daniela Sacco, Scene di straordinaria quotidianeità dal grattacielo di Rimini, in “Ateatro”, http://www.ateatro.it/webzine/2015/05/28/scene-di-straordinaria-quotidianita-dal-grattacielo-di-rimini/

Bianca Felicori, Cinema grattacielo, dal sogno borghese alla decadenza, in “Elle decor”, https://www.elledecor.com/it/architettura/a27720105/grattacielo-di-rimini-storia-film-marco-bertozzi/

Cristina Piccino, Verticale e orizzontale. L’Italia dal “Cinema grattacielo”, in “Il Manifesto”, https://ilmanifesto.it/verticale-e-orizzontale-litalia-dal-cinema-grattacielo/

Giacomo Ravesi, Dove va il documentario contemporaneo?, in “Fata Morgana Web”, https://www.fatamorganaweb.it/index.php/2017/07/27/cinema-grattacielo-marco-bertozzi/

Massimo Mordini, Un marziano a Rimini. “Cinema grattacielo” atterra nelle sale, in “Tropismi”, https://www.tropismi.it/2017/10/17/cinema-grattacielo/

Antonio Rabbito, La prospettiva audiovisiva del grattacielo, in “Scenari”, https://www.mimesis-scenari.it/2018/06/15/speciale-roma-tre-film-festival-la-prospettiva-audiovisiva-del-grattacielo/

Premiografia

Menzione speciale della giuria, Biografilm Festival, Bologna, 2017
Per la ricerca di una narrazione innovativa e visionaria e la scelta cinematograficamente forte di dare voce e corpo alla biografia di un grattacielo, con i suoi vissuti, i suoi abitanti, i suoi sogni, le sue fantasie.

Menzione Speciale – Extra Doc Festival – MAXXI, Roma, 2018
Un film di notevole impatto figurativo, sia per la ricchezza di un linguaggio ibrido e contaminato da molteplici forme espressive che confluiscono in una percezione allucinata e straniante della realtà, sia per la costruzione narrativa che trasforma il Grattacielo edificato negli anni del boom economico sul litorale di Rimini in un simbolo della moderna globalizzazione e convivenza multietnica.

Best Italian Documentary – Sardinia Film Festival – Sassari, 2018
Per la capacità di dare anima e voce, con intensa sperimentazione visiva e sonora, ad una struttura architettonica densa di umanità che, attraverso le tante porte e finestre, mette in relazione vite altrimenti inconciliabili e diventa, così, emblema di una comunità ideale.

Move Cine Arch – Festival Film on Architecture – Venice, San Paulo, Paris – 2018
Award Best Form per le possibilità innovative nel rappresentare l’architettura.

 


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