Scorci di immagini, per loro natura segnate da un confine: il tempo e lo spazio esperibili durante le immersioni in apnea. In questo saggio fotografico, Gianluca Tesauro riflette sulla propria pratica di apneista e sul fatto che, come esseri umani, ci sarà sempre qualcosa a cui non potremo accedere.

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In lockdown mi affascinai al mondo del trattenere il respiro, all’esperienza di trascendenza generata dalla pratica dell’Apnea. Avevo da poco cominciato ad immergermi e nel momento in cui il mare fu negato anche a chi poteva ancora toccarlo, ricercai questa condizione psico-fisica a secco.

Abissi, balene, fotografi e sportivi: questi e altri sogni furono miei compagni di isolamento. Una via di fuga, steso sul tappeto a respirare col diaframma, un blu mentale e terapeutico in un momento difficile. L’isolamento forzato può avere anche un beneficio, che è quello di dover stare per forza con te stesso e spingerti a trovare il modo migliore per farlo.

 

La pratica dell’Apnea porta ad un luogo interiore che va ricercato con pazienza, necessita di calma e di lavoro mentale sul respiro, nostro atto vitale. Altra cosa è immergersi con le bombole, che mantengono la capacità corporea di respirazione simile alla terra ferma. 

A tutte le latitudini del globo e in ogni tempo esistono storie di esseri umani con capacità d’immersione straordinaria come gli Urinatores dell’antica Roma, le Ama pescatrici di perle giapponesi, o i Bajau nomadi del mare indonesiani.

E se la subacquea e lo sviluppo di attrezzatura tecnica per respirare sott’acqua sono un mondo alquanto nuovo, lo è anche l’apnea sportiva. Nell’età moderna uomini mitologici hanno oltrepassato limiti che si credevano fisicamente irraggiungibili, riscrivendo la scienza con le sole capacità fisiche. Hanno dimostrato che Colapesce non è leggenda.

 

In uno dei documentari in cui mi rifugiavo in solitudine, un’atleta parlava dell’effetto che fa tornare in superficie dal profondo. L’apnea è una pratica pericolosa ma emozionante per le visioni che possono sopraggiungere a causa della mancanza di ossigeno, ed il mare in questo addirittura non c’entra. 

In piscina, ad esempio, mi ritrovo da solo con la linea blu sul fondo della vasca. A chi a questo sport dedica la vita ho chiesto ma dov’è il bello, mi è stato detto: è dentro di te. È la fascinazione di avvicinarsi al limite, fisico e interiore. C’è chi salta nel vuoto o corre a forte velocità: l’apneista sospende la respirazione, sfidando la propria mente a non averne paura, per poi tornare a galla e rinascere.

 

Sono cresciuto in Costiera Amalfitana e, negli anni vissuti lontano, l’assenza del mare è stata inquietudine costante. Mi mancava un orizzonte a cui aggrapparmi. Una volta tornato a casa, comprata la prima muta, ho capito che non mi interessava cacciare ma osservare il mondo sommerso, e me dentro di lui.

Se visivamente ci è familiare tutto ciò che appartiene alla superficie, cosa c’è sotto di essa? Che forma ha la vita lì dove tutto è nato? Per questo, finito l’isolamento, una volta libero di tornare in acqua, ho iniziato a fotografare.

Saltando macchine automatiche varie ma senza arrivare ad un’attrezzatura professionale, ho comprato una Nikonos IV, vecchia analogica anfibia nata agli albori della fotografia subacquea. Mi affascinava l’idea di avere anche un limite tecnico oltre a quello fisico.

 

La quasi totalità delle profondità marine sono a noi sconosciute e ad oggi non abbiamo ancora i mezzi per esplorarle. Possiamo andare e tornare dallo spazio ma ad un passo dai nostri ombrelloni estivi esiste un mondo che poco percepiamo, un mondo che, chissà ancora per quanto, è solo mistero. 

Gli animali del cielo e della terra li possiamo osservare, tracciare, studiare. Il mondo dei pesci è ancora, in parte, teoria e immaginazione.

Percepiamo una certa impossibilità nell’avere a che fare con questo mondo altro, quando invece il solo riflesso d’immersione, la capacità del nostro corpo di rallentare il battito cardiaco quando è a contatto con l’acqua, basta a dirci quanto sia questa la nostra vera origine. Una natura anfibia sopita: nasciamo in immersione, ma una volta fuori, semplicemente lo dimentichiamo.

La fotografia analogica è una pratica oggi tornata di moda ma a cui ormai siamo poco abituati, figurariamoci sott’acqua. Non abbiamo restituzione visiva immediata del risultato e per scattare si è costretti a guardare nel mirino mentre sul viso si ha già la maschera, forse un pò appannata. Nell’incertezza possiamo scattare più volte la stessa scena ma il numero limitato di pose per rullino spinge alla parsimonia anche perchè, nel tempo di un immersione, non possiamo cambiare rullino. 

 

Sono camere pensate per l’immersione con autorespiratore che permette stabilità e tempi più lunghi a disposizione per lo scatto, oltre alla possibilità di utilizzare attrezzatura d’illuminazione ausiliare. Provare ad usarle in apnea è quasi pretenzioso ma per me, proprio per questo, l’esperimento dà ad ogni foto un suo peso specifico.

C’è quasi la volontà di non aver troppe possibilità, in questo momento in cui imparo ad andare sott’acqua, approcciare la documentazione dell’esperienza con limitati e imprevedibili mezzi mi permette di lasciare il tutto in una dimensione casuale, avventurosa ed onirica.

 

Fotografare in apnea rispetta la stesse regole della pesca subacquea che è permessa, infatti, solo in apnea. Per poter assediare un pesce nel suo ambiente bisogna essere alla pari, riuscire a rimanere lucidi alle sue profondità. E poi Una regola per una buona foto è trannere il fiato prima di scattare – e in apnea tu lo stai già facendo, mi ha detto un amico.

In acqua la pressione gioca un ruolo fondamentale. È subito evidente che per essere alla pari in un ambiente a noi alieno abbiamo bisogno di grande sforzo, mentre un qualsiasi piccolo essere marino nel suo ecosistema è a noi nettamente superiore.

Si entra in un luogo altro e l’adattamento fisiologico del corpo ad un sistema a noi estremo condiziona la percezione della natura intorno. 

Il nostro udito è ovattato ma i suoni si propagano a grandi distanze, tutto ci appare più grande e più vicino ed i colori iniziano a scomparire all’aumentare della profondità: prima il rosso, poi l’arancio, poi il giallo e via e via fino al solo blu profondo. Non c’è olfatto.

 

Sono minuti segnati dall’ignoto. Trovo emozionante acquattarmi sul fondo e, per quanto mi sia possibile, aspettare finche la vita riparte. Osservare un piccolo pesce avvicinarsi curioso, guardarci negli occhi, scoprirmi in empatia. Guardare il tetto d’acqua che si avvicina durante la risalita è forse l’immagine più potente di ogni discesa. Onde di luce e di salvezza. 

Estasi e stupore, in ogni immersione, anche a modeste profondità, posso dire di averle incontrate. Ma fa anche spavento il buio immenso, i mostri marini delle antiche leggende e del cinema moderno ne sono archetipo. Paura, felicità e attrazione inconsce, liquido amniotico in vita, il Grande Blu è profondità interiore.

 

Ne ho comprate prima una e poi un’altra di queste piccole macchine fotografiche fatte di ferro e guarnizioni, e pensavo fosse cosa semplice. Ma ogni granello di sale e goccia d’acqua hanno nel mare un peso che noi poco conosciamo, esseri all’asciutto.

Per mia superficialità le ho allagate entrambe, una a Procida e l’altra ad Erchie, ma sono riuscito comunque a sviluppare le pellicole. Il risultato sono due rullini dove qualcosa è stato impresso. Non è ciò che mi aspettavo. Ma è il segno di quanto spesso sottovalutiamo ciò che crediamo di conoscere, di quanto il mare sia metafora del sè, imprevedibile, insondabile, infinito.

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Gianluca Tesauro ha imparato a nuotare in Costiera Amalfitana, a progettare a Milano, a comunicare a Londra e a scattare foto a New York. Ora sta cercando di fare tutte queste cose nello stesso posto, anche se non sa ancora dove.

www.gianlucatesauro.com

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