La “Storia filosofica dei secoli futuri” è un’opera di narrativa politica e anticipatrice della fantascienza, scritta dall’autore italiano Ippolito Nievo e pubblicata nel 1860. Il romanzo tratta in modo satirico aspetti della storia dell’umanità fino all’anno 2222, prevedendo di fatto alcuni eventi mondiali realmente accaduti, tra cui la costruzione dell’Istmo di Suez, le rivolte che portarono alla Comune di Parigi, la diffusione degli stupefacenti e la nascita dell’Unione Europea. In questo estratto, corrispondente al capitolo “Creazione e Moltiplicazioni degli Omuncoli (2066-2140)”, Nievo racconta da una prospettiva ottocentesca l’invenzione dei primi androidi e le conseguenze sociali della completa automazione industriale. L’illustrazione di apertura è stata creata da un’intelligenza artificiale del 2023, antenata degli omuncoli.

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Il caso, ovverosia l’attività umana individuale ed anormale, ha presieduto ai periodi storici della vecchia società; la nuova riconosce il suo sviluppo crescente e regolare dall’industria, ovverosia dall’attività umana collettiva e progrediente. Noi tocchiamo ora ad una rivoluzione scientifica che operò nel consorzio umano il maggior cambiamento che siasi mai operato; e dopo un’oscillazione spaventosa di alcuni lustri lo fermò stabilmente sulle basi incrollabili su cui esso adesso riposa. 

L’introduzione delle lingue articolate, la formazione delle famiglie, il trovato della navigazione, l’agricoltura, lo stabilimento delle città, la codificazione morale religiosa, il dogma dell’eguaglianza umana, l’invenzion della polvere e della stampa, il trionfo della libertà di coscienza, l’applicazione del vapore e dell’elettrico, l’assetto definitivo della nazionalità, la concordia democratica universale, e la sanzione sociale del diritto di viver bene aveano condotto l’umanità di metamorfosi in metamorfosi a non riconoscersi più nella sua forma originale. 

Ma la rivoluzione, di cui parliamo ora, sorpassa pel miracolo della causa e per grandiosità degli effetti qualunque altra opera abbia mai adescato l’immaginazione umana. 

Tutti s’avvedono come io alluda all’invenzione degli omuncoli detti anche uomini di seconda mano, o esseri ausiliari. La costoro creazione, non anteriore al nostro secolo di cento sessant’anni, si perde già nelle incertezze e nell’oscurità della favola; ma le migliori autorità s’accordano ad ascriverne il merito a Jonathan Gilles meccanico e poeta di Liverpool. Ecco al dire dei cronisti come andò la cosa.

Jonathan Gilles e Teodoro Beridan erano vicini. Ambidue fabbricavano macchine da cucire; ambidue erano svegliati d’ingegno, poveri, viziosi ed invidiosi. Si spiavano vicendevolmente, per aver occasione di mormorare l’uno dell’altro, e rubarsi le pratiche, gli avventori e i segreti del mestiero.

Tutto ad un tratto Beridan cominciò a condurre vita ritirata, ad abbandonare le osterie dove usava frequentare assaissimo, a trascurare il solito commercio, e a non farsi vedere in bottega. Non scendeva quasi mai dal piano superiore della casa, e spesso ad ora tardissima della notte si vedeva splender il suo lume dalle fessure delle imposte. Ma egli s’accorgeva d’essere osservato, e tappò qualche fessura con tutto lo scrupolo; allora solamente qualche colpo di martello dava sentore per due o tre giornate che quella casa era abitata.

Jonathan pativa tutti i supplizi dell’invidia. Cosa faccia mai Beridan? Qual macchina soprannaturale stia egli perfezionando? Egli almanaccò tanto e poi tanto che per non diventar pazzo decise di cavarsi la curiosità ad ogni costo, S’inerpicò una sera sul tetto del vicino, si calò prudentemente per la canna del camino, e, dietro un parafuoco diligentemente traforato, stette ad aspettare la rivelazione del mistero. Egli sapeva che quello era appunto il camino del laboratorio di Beridan.

Aspetta aspetta, costui entrò finalmente. Ma qual meraviglia per Jonathan al vedere che esso non era solo! Gli faceva compagnia un ometto pallido e stecchito, che moveva ad angoli retti le gambe le braccia e in vece di voce faceva sentire un certo suono gutturale che assomigliava al linguaggio delle oche. L’ometto si piantò dinanzi al meccanico come un soldato che s’appresti ad imparar l’esercizio, « Siedi! » gli gridava Beridan, e l’ometto sedeva. 

« Cammina! » e l’ometto camminava. « Scrivi! » e l’ometto sedeva allo scrittoio e vergava un paio di parole. « Sempre quelle due parole! non altro che quelle due parole! » esclamava il meccanico, « come ho a fare, come ho a fare perchè nei suoi movimenti non prenda legge dalle molle che ha nelle giunture, ma dal bisogno del lavoro a cui s’accorge? »

« Come puoi fare? » pensò Jonathan dietro al parafuoco, « bisogna eseguire congegni, molle, e apparati chimici sì delicati che sentano la differenza e il valore degli ostacoli in cui si abbattono e lavorino a seconda! Ah, tu hai fatto l’automa? … Piccino mio; te ne accorgerai di qui a tre o quattro mesi! lo avrò fatto l’uomo! »

Riguadagnò il tetto a furia di ginocchi, di colà rientrò in casa sua, e si mise a lavorare l’embrione dell’uomo, vale a dire l’automa. Ma fa e disfà, immagina, eseguisci e prova, quel benedetto automa non veniva mai. Il povero autore si sentiva la potenza di finirlo e non quella di cominciarlo; gli mancava la pazienza meccanica, a lui che possedeva in sì alto grado la sintesi scientifica! Tre mesi di lavoro lo trovarono sempre fermo sul primo passo; l’automa non si moveva, o dava un movimento convulsivo alla maniera d’un epilettico.

Il povero Jonathan a capo chino bussò un giorno alla casa di Teodoro, e gli annunciò di avergli a comunicar cose della massima importanza. Teodoro lo introdusse, e sedettero uno per parte a lato del focolare. Prima per altro di aprirsi maggiormente, Jonathan volle l’assicurazione dal vicino che, se fosse necessario di unirsi tra loro per raggiungere qualche intento miracoloso, vi si sarebbero messi di buon animo, senza invidie, e senza litigi sul guadagno che sarebbe andato diviso per metà. Beridan assentì a tutto e si dispose ad ascoltare.

« Ehi! » mormorò a malincuore l’altro, « ho trovato la maniera di far agire quasi liberamente in una data sfera d’azione una macchina umana artificiale.»

« L ’avete trovata? » sclamò Beridan con un’occhiata di rabbia e di avidità.

«Si, l’ho trovata », soggiunse con enfasi Jonathan; « ma per metterla a frutto mi manca una cosa essenzialissima; mi manca la macchina umana, che, per quanto mi abbia provato in tre mesi, non son mai riuscito a compaginarla».

« Non vi manca altro? » gridò Beridan buttandogli le braccia al collo. « La macchina umana l’ho bella e composta io. Guardate».

E aperse un armadio e ne fece uscir fuora l’automa dalla voce di oca.

« Lo sapeva! » soggiunse maliziosamente Gionata, « che ora non è tempo né di confessioni né di complimenti; è tempo di accumulare le nostre scoperte, e di utilizzarle al più presto pel massimo nostro vantaggio. Con dieci di queste macchine noi diventeremo tanti Rothschild».

Da quel colloquio in poi Jonathan e Teodoro lavorarono insieme rinchiusi misteriosamente nel gabinetto di quest’ultimo. I vicini mormoravano di questo curioso disparimento e li mettevano in canzone come due pazzi. Cessarono per altro gli scherzi quando i due creatori d’uomini uscirono alla luce del mondo col loro figliuolo, benissimo educato all’arte del calzolaio.

Si erano combinati di adattarlo a questo mestiero, come quello che abbisognava d’un minor numero di movimenti. E lo strano omiciattolo, cui avevano imposto il nome di Adamo, lavorava giorno e notte senza cibo ne bevanda, allestendo con esemplare assiduità buon numero di scarpe, stivali e perfino di stivaletti da signora.

La società andò innanzi benissimo finché il lavoro occupò tutto il tempo dei due fabbricatori, ma quando ebbero confezionato in un mese una mezza dozzina di calzolai, siccome il guadagno era lautissimo, Beridan cominciò a correre le osterie, a bere delle gran pinte di porter, ed a giurare e spergiurare che gli sarebbe bastato l’animo di preparare in una settimana il miglior oratore del parlamento. 

Jonathan si dolse col collega di questo suo strano modo di procedere, che, propalando al pubblico la sorgente dei loro guadagni, li avrebbe assoggettati a mille seccature e forse forse costretti a svelare altrui il meraviglioso segreto. Beridan oppose ch’era padrone del fatto suo; e a nuove rimostranze di Jonathan minacciò di insegnar gratis l’arte della loro fabbricazione, e di rovinare così il commercio comune.

Jonathan tacque, ma siccome era uomo sofistico e risoluto, si ritirò a riflettere nella propria casa e non si fece vedere per tre giorni. V’immaginate voi in qual opera egli aveva impiegato quei tre giorni? Nel fabbricare un omuncolo congegnato a bella posta perchè andasse a trovare il collega Beridan e gli piantasse venti buone coltellate fra le costole. Infatti così accadde; la forza muscolare dell’uomo non poté resistere alla forza meccanica dell’automa; e alle grida strazianti che si udivano accorsi tutti i vicini, trovarono il povero Beridan spirante fra le braccia d’un ometto giallo e scarnato che gli aveva crivellato il corpo di stilettate.

Era più spaventevole ancora quello spettacolo, inquantoché intorno alla vittima ed al suo carnefice, sei calzolai lavoravano tranquillamente come non si accorgessero punto del misfatto che si commetteva.

Ci volle molto accorgimento per imprigionare il piccolo assassino, e allontanare i sei calzolai dai loro banchetti, ma finalmente furono condotti in giudizio; ove chiarita la qualità del fatto e pur sembrando impossibile un tale miracolo stette a lungo in dubbio se si dovesse ammettere o meno nell’uccisore di Beridan l’imputabilità morale.

Alla fine il prudente giurì inglese convenne nel sentenziare a morte Jonathan Gilles; ma lo condannò come mandante d’un assassino; e si volle condannare anche l’omuncolo meccanico alla pena della decollazione come reo di materiale omicidio premeditato e consumato.

Jonathan si disponeva a subire il taglio della testa ed a portar nella tomba il suo segreto, non altri eredi lasciando che i sei calzolai e il piccolo suo correo già condannato all’eguale supplizio, quando la direzione della banca, il ceto degli onorevoli industrianti, e le migliori società del regno si commossero al timore che un’arte tanto singolare e che poteva cangiare sì profondamente le condizioni della umanità potesse andare miseramente perduta, e impetrarono dal re che si graziasse il colpevole della vita, purché egli dichiarasse ad una commissione di chimici, filosofi, economisti e ingegneri meccanici il segreto della sua fabbricazione.

Potete credere che per quanto fosse rassegnato a morire Jonathan accolse di gran cuore la proposta; e da quel momento la fabbricazione degli omuncoli, o uomini meccanici, divenne una speculazione d’industria come qualunque altra.

La facilità e la semplicità a cui si giunse in processo di tempo nella maniera di confezionarli, e la loro adattabilità ai più vari, dilicati e faticosi mestieri, li generalizzarono e ne abbassarono il prezzo per modo, che il loro numero uguagliò in breve il numero degli uomini reali. 

Ora esso lo sorpassa di molto, ed essendo la loro esistenza indefinitamente lunga fino alla logorazione della loro materia per lo attrito degli organi, il lavoro per la necessaria riproduzione è così minimo che può sembrare piuttosto un passatempo ed un utile esercizio ginnastico che altro.

I cambiamenti che avvennero nello stato sociale ed economico, e la totale rivoluzione nelle solite condizioni dell’umanità in seguito alla moltiplicazione degli omuncoli si possono più di leggieri immaginare che descrivere.

L’agiatezza e l’ozio cui poterono godere tutte le classi della società diedero una temporanea predominanza ai contadini, i quali mal pacificati ancora dalle ultime sconfitte nel campo politico, se ne vendicarono col far pesare legalmente sugli altri ceti la loro ignorante e tirannica maggioranza. 

Ma questo male non durò oltre il 2210; perché in quell’epoca, essendo già succedute due generazioni ai contemporanei di Gilles, gli ultimi cresciuti si trovarono in educazione ed in sentimenti così disformi dall’antica rozzezza e così simili alla civile cultura, che le differenze fra i diversi ceti scomparvero affatto.

Solamente l’ozio guadagnava troppo nelle abitudini della società; e insieme coll’ozio l’uso dei narcotici come il tabacco, l’oppio e il betel, i quali facevano morire di stupidità un gran numero di cittadini. Quelli poi che volevano preservarsi da tali disgrazie e si davano allo studio, incorrevano facilmente in accessi cerebrali e morti improvvise per apoplessia nervosa; del qual malanno i medici incolpavano la soverchia attività concentrata tutta nel cervello per due o tre generazioni.

Fino al 2140 gli uomini s’erano dati a fabbricare solamente omuncoli maschi, ma in quell’anno un figlio di Gionata Gilles, erede d’un suo segreto, si disse che arrivò a fabbricare un omuncolo femmina, o donnuncola. Gli economisti furono assai spaventati di questa innovazione che minacciava il genere umano di sterilità procurando un surrogato alla donna. 

Per cui il figlio di Gilles fu tenuto d’occhio fin che visse, perché non potesse comunicare altrui quella pericolosissima scoperta. E dopo che egli fu morto, siccome il segreto di quella fabbricazione pareva tutto consistesse in un certo lievito di fegato di gatta, Gregorio Alison presidente del decimo congresso dell’umanità, ordinò la distruzione di tutta la razza felina. La sentenza fu eseguita puntualmente, e i diritti delle donne furono salvi, ma la terra fu inondata da una quantità molestissima di topi.

Le guerre, le dispute e le discussioni religiose a proposito degli omuncoli sarebbero assai lunghe a narrarsi. Basti il dire che il papa di Roma scomunicò nel 2180 tutti quelli che ne fabbricavano; e poi vedendo che il divieto fruttava poco, ordinò in dubbio che quelle creature fossero battezzate, per salvarle dalla dannazione se erano in qualunque modo animate, e per toglierle alla balia di Satanasso se non erano altro che strumenti dell’attività umana. 

Con queste due scomuniche si chiuse il bollano dei pontefici che abbracciava diciotto secoli, dal secolo Vº dell’era volgare al XXIIIº: ma la prima e più lunga parte era stata compresa nella distruzione libraria del 2030.1

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Note

[1] La distruzione di tutti i libri scritti prima del 2000 – di cui Nievo parla nel capitolo intitolato “Dalla Federazione di Varsavia alla Rivoluzione dei Contadini” – fu ordinata nel 2030 da Adolfo Kurr, “gran patriarca del mondo e benefattore del genere umano”, che riteneva i libri responsabili delle «più perniciose rivoluzioni»

Approfondimenti:

V. Camarotto, Uomini di Seconda Mano, Note su automi e creature artificiali da Leopardi a Capuanahttps://www.italianisti.it/pubblicazioni/atti-di-congresso/letteratura-e-scienze, 2019

R. Campa, La Storia Filosofica dei Secoli Futuri di Ippolito Nievo Come Caso Esemplare di Letteratura dell’Immaginario Sociale: un Esercizio di Critica Sociologica, 2012 https://ruj.uj.edu.pl/xmlui/bitstream/handle/item/278144/campa_la_storia_filosofica_dei_secoli_futuri_2004.pdf?sequence=1&isAllowed=y


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