Partendo dall’esplorazione dei cosiddetti “viàz”, un impervio percorso alpino delle Dolomiti zoldane, Silvia Segalla riflette sul concetto di “selvaggio” attribuito all’ambiente montano, che nell’immaginario comune sembra divenire riserva e baluardo della natura. In un’epoca in cui una revisione del rapporto tra “umano” e “naturale” si fa sempre più urgente, l’articolo osserva criticamente le trasformazioni dell’ambiente alpino e delle pratiche che lo attraversano, da una riflessione che incrocia ricerca bibliografica e osservazione partecipante.
I viàz e i suoi contesti
I viàz sono itinerari che ripercorrono le tracce di camosci e cacciatori. Attraverso cenge, canali, gole e ballatoi essi individuano audaci collegamenti tra versanti montuosi, in ambiente tipicamente dolomitico. Famoso, tra questi, il viàz del Gonela, che attraversa le bastionate rocciose degli Spiz di Mezzodì, nelle Dolomiti bellunesi e più precisamente zoldane. Qui un fitto intreccio di guglie, torrioni e pinnacoli sovrasta due brevi altipiani: il pascolo in cui sorge la dismessa casera di Mezzodì (1349m) e quello del Casel Sora ’l Sass, oggi Rifugio Angelini – Sora ’l Sass (1588m). Tre cime principali spiccano sulla moltitudine delle elevazioni minori: lo Spiz Nord (2305 m), lo Spiz di Mezzo (2324m), lo Spiz Sud (2309 m).
Il percorso, segnalato da ometti di pietra, si dipana in un contesto al contempo magnifico e repulsivo, in esposizione pressochè costante. Nonostante le difficoltà tecniche di arrampicata siano contenute (massimo III grado), l’itinerario richiede buone doti alpinistiche, orientamento e confidenza con gli aspetti anche scabrosi dell’ambiente montano. La frequentazione si misura in poche “cordate” l’anno, composte in molti casi da escursionisti-alpinisti provenienti dalla vallata sottostante o da quelle adiacenti.
L’ardimentoso itinerario deve il nome al quasi leggendario cacciatore Giacomo Pra Baldi (1822-1907), detto «el Gonèla», cui si deve l’accesso al ballatoio principale. Riscoperto in chiave alpinistica nei primi decenni del Novecento, fu prolungato fino a concatenare, attraverso un sistema di cenge, l’intero basamento delle elevazioni maggiori. Il contesto è quello della Val di Zoldo, terra del gelato segnata dall’emigrazione (in particolare verso la Germania), storicamente dedita alla pastorizia, all’industria del ferro e del chiodo e al lavoro ad esse correlato dei carbonai.
La storia del viàz, e dell’ambiente in cui si colloca, ripercorre il destino di molte altre località alpine e dolomitiche, che nel corso del Novecento hanno subito una trasformazione in senso ricreativo, ludico e turistico. Più a valle, alla base boscosa degli Spiz, numerosi sentieri sono stati dismessi: le tracce inerbate ancora visibili nelle faggete testimoniano l’alacre presenza di boscaioli, carbonai e lavoranti. Non di meno, la toponomastica, pur sbiadita nella memoria locale, suggerisce una geografia di lavoro: le pàuse che scandiscono le salite, gli aialèt, spiazzi circolari dei carbonai, il festil, dove si abbeveravano le bestie… fino agli stessi viàz, tra cui spiccano quello del Gonèla, cacciatore, e quello dell’Oliana (al secolo Giuliana Lazzaris), vivandiera dal passo non meno fermo (Cason Angelini, 2008). Mentre alcuni sentieri andavano scomparendo, la sezione locale del Club Alpino Italiano, fondata nel 1966, assicurava a escursionisti e turisti la percorribilità di altri – puliti, bollati, numerati – attraverso l’operato dei suoi volontari.
Un destino simile spettava alle strutture. La casera di Mezzodì, dismessa in quanto malga, fu riadattata e destinata a ricovero (attualmente chiuso al pubblico). Dai ruderi del Casel Sora ’l Sass, usato un tempo dai pastori, venne eretto negli anni Settanta un bivacco, trasformato nei primi anni Novanta in rifugio gestito, attualmente meta di gite giornaliere e tappa di trekking in quota per un pubblico di escursionisti e turisti dalle provenienze sempre più varie. Nel 1970 venne inaugurato inoltre il bivacco Carnielli-De Marchi (2010m) quale appoggio per gli alpinisti intenzionati ad affrontare il versante occidentale del Mezzodì.
La scoperta e la valorizzazione in senso alpinistico ed escursionistico degli Spiz si lega alla curiosità scientificamente esplorativa di Giovanni Angelini, medico e alpinista bellunese che insieme al fratello e ad alcuni amici – tra cui spicca il nome di Silvio Sperti – si dedicò a scoprire, tracciare e divulgare possibili percorsi, ascensioni e collegamenti: tra questi, lo stesso viàz del Gonèla, descritto con sguardo ammirato come un «capolavoro di architettura di cenge, di intuito di selvaggina e cacciatore […] una stupenda via alpinistica di arroccamento» (Angelini G., 1950, 94) che si svolge in «ambiente grandioso e solitario, con la suggestione impressionante degli Spiz incombenti e la visione dei precipizi sulla valle» (Angelini G., 1968, 58-59).
Le esplorazioni di Angelini e del suo gruppo, attivo in modo discontinuo a partire dagli anni Venti, si fecero del resto eredi di un capitale di conoscenza che rischiava di esser perduto: quello di pastori e cacciatori locali, della cui presenza le montagne zoldane andavano spopolandosi. Si perlustrò la zona, si ritracciarono vecchie vie, se ne aprirono di nuove.
Gli esiti di questa appassionata attività hanno segnato la storia degli Spiz: le numerose pubblicazioni scaturite da queste ricognizioni sistematiche hanno contribuito infatti modo decisivo a valorizzare un gruppo montuoso relativamente sconosciuto ad alpinisti e visitatori. Nell’ambito di una regione dolomitica intensamente segnata e infrastrutturata dalla presenza turistica, gli Spiz di Mezzodì rimangono ad oggi defilati rispetto alle frequentazioni massive, ma vedono la presenza di un buon numero di escursionisti che affrontano, in particolare, i sentieri CAI (bollati, manutenuti dai volontari e segnalati nelle mappe in commercio). La stessa vallata, parimenti circondata da cime ben più celebri, vede nel turismo fonte di introiti importante, anche alla luce della progressiva dismissione delle attività produttive che la caratterizzavano nel passato.
In questo contesto, un itinerario come il viàz del Gonela resta per lo più appannaggio di un ristretto pubblico di appassionati del genere e di frequentatori provenienti da aree limitrofe. Per costoro, la conoscenza del percorso rappresenta un capitale culturale significativo non solo nel campo dell’alpinismo, ma anche nella sfera più intima della relazione con uno spazio che si condivide, volenti o nolenti, con flussi di persone che lo attraversano e talvolta lo sfruttano senza condividerne la storia quotidiana.
Divulgare il selvaggio
Come molti itinerari alpinistici, e al contrario dei sentieri CAI, il viàz non presenta segnavia “ufficiali”. Vi si trovano solo ometti di pietra, qualche chiodo per proteggere i passaggi più delicati, eventuali cordini lasciati sulla via. La relazione del percorso – ovvero la sequenza di spiegazioni necessarie a individuarlo – è riportata in alcune guide relative agli Spiz.
Negli ultimi decenni, alcune pubblicazioni sono state dedicate alla scoperta e alla riscoperta dei “sentieri selvaggi” delle Dolomiti, tra cui spiccano per tipologia i viàz (Bonetti, Lazzarin 1986; Bonetti, Lazzarin 1996; Bonetti, Lazzarin, Rocca 2006; Mason 2013). Molti fattori concorrono a far rientrare (quantomeno idealmente) un viàz come quello del Gonela nel novero di questi itinerari: la tipologia stessa del tragitto (né sentiero, né via di roccia), la scarsa celebrità del contesto montuoso, la severità dell’ambiente, la fatica dell’ascesa, l’isolamento. Apparentemente autoevidente, la definizione di selvaggio con cui si confrontano questi testi merita tuttavia di essere analizzata in modo critico. Le stesse precisazioni degli autori permettono di capire che non si tratta semplicemente di itinerari lungo i quali le tracce antropiche sono limitate: la loro peculiarità sembra più precisamente quella di conservare un carattere esplorativo che sfida l’intuito e le capacità di ogni singolo percorritore, consentendogli di vivere la montagna come esperienza genuina, immediata, emotiva, oltre che come impresa sportiva.
In effetti, se il viàz del Gonela può definirsi “selvaggio”, è solo a patto di tenere a mente l’aperta contraddizione di addebitare alla wilderness un percorso ideato e tramandato da uomini calati in contesti culturali, sociali ed economici ben determinati: dapprima per la necessità molto pragmatica di procacciare cibo, successivamente per “scoprire” il naturale come contraltare di una quotidianità sempre più urbanizzata. Non di meno, per i frequentatori attuali, l’esperienza del selvaggio nel percorrere un viàz si tiene nell’equilibrio tra il misurarsi singolarmente con un ambiente isolato, con terreni ardui, e il saper scorgere i segni antropici mimetizzati nel percorso: un ometto, un ramo di mugo spezzato, impronte sbiadite sulle ghiaie esposte. Non si tratta del resto di individuare un qualunque collegamento tra un attacco e un’uscita della «via orizzontale» (Mason 2013), ma di riandare con intuito e osservazione dal progetto virtualmente realizzabile tra cenge e canali a quello storicamente realizzato, ripercorrendo quelle stesse orme che la vicenda – anche materiale – dell’itinerario tramanda e individuando, tutt’al più, varianti e collegamenti plausibili. Nell’affrontare il viàz, la dicotomia tra umano e non umano si risolve insomma in un equilibrio di presenze e assenze: da un lato, un eccesso di segni o attrezzature potrebbe invalidare il senso di sfida dell’individuare e affrontare autonomamente il percorso. Dall’altro, tuttavia, la completa l’assenza di tracce umane renderebbe malcerta la soddifazione di essere riusciti a ricalcare, coi propri passi, proprio quei passi che la storia ha tramandato, le vertigini, le soluzioni, i giochi d’equilibrio che altri hanno provato, raccontato e descritto. Il fair play alpinistico richiede a ciascun giocatore di cimentarsi nell’impresa con leale consapevolezza dei propri mezzi (Carusano 2011, 115; Mummery 1895) e di limitare le inevitabili tracce, in particolare quelle più estranee al contesto, preservando intatto ai posteri il terreno di gioco. Tale attitudine riguarda necessariamente il percorso sia nella sua materialità (in quanto tragitto su roccia non ufficialmente segnalato) sia nella esistenza “virtuale” (in quanto percorso raccontato, relazionato, promosso).
Nel presentare gli itinerari, gli stessi autori dei volumi sulle Dolomiti “selvagge” e “inesplorate” si chiedono apertamente se non sia incoerente divulgarne il segreto. Tale dilemma riassume un’epoca in cui le aree montane vivono opposte tendenze: in alcune l’impatto del turismo massificato rischia di disneyficare il territorio, dequalificandone le caratteristiche ambientali e depauperando l’esperienza stessa degli appassionati, mentre in altre l’abbandono dei contesti produttivi e lo spopolamento causano l’inselvatichimento di intere zone, con la conseguente erosione del sistema di conoscenze, biodiversità e percorsi su cui si reggevano (Varotto 2017). Individuare una soluzione richiede ancora una volta di superare la contrapposizione tra umano e naturale, promuovendo una frequentazione qualitativamente (e non quantitativamente) elevata, capace di un confronto consapevole con la montagna.
Le relazioni ammoniscono in genere circa l’impegno richiesto dal viàz. La difficoltà cui si fa riferimento trascende, anche a motivo dell’ambiente misto in cui si svolge, la scala delle abituali classificazioni tecniche e rimanda insieme alla sfera, più sfuggente e in un certo senso più intima, della confidenza con l’ambiente alpino (orientamento, intuito, abitudine all’esposizione, autocontrollo, autonomia nell’affrontare i contrattempi…). In questo contesto, la conoscenza stessa dell’itinerario si deve verosimilmente all’appartenenza a un pubblico relativamente competente, così che il percorso dell’escursionista/alpinista inizia molto prima dell’attacco, arrivando a includere tutto il bagaglio di conoscenze ed esperienze maturate in ambiente alpino. Anche la sicurezza assume un valore relazionale: scongiurando ogni intervento di infrastrutturazione del percorso (bolli, corde fisse), essa fa perno sulla capacità di adeguare la scelta del percorso ai limiti delle proprie competenze contingenti. Paradossalmente, non l’accessibilità, ma l’inaccessibilità dell’itinerario allontana in questa prospettiva il possibile verificarsi di gravi incidenti. Non a caso, la percorrenza degli itinerari è consigliata in tutti i volumi a chi è già dotato di una certa esperienza, con l’invito a procedere con in modo umile e progressivo nell’acquisizione delle competenze necessarie ad affrontare anche i percorsi più impegnativi.
Costruzioni del selvaggio
Per quanto giustamente evocativa, definire il viàz come percorso “selvaggio” risveglia le contraddizioni implicite alla storia del concetto di wilderness (Cronon 1996, Ward 2019). Nato in un contesto naturale e culturale statunitense dominato dal mito della frontiera e dell’eroe che la sfida, l’idea di wilderness contrappone nettamente la natura, ammantata di valori positivi, alla cultura, tacciata di riprovevole e malsana artificialità. Se già il romanticismo europeo individua il sublime nella natura selvaggia, oltre oceano l’urbanizzazione e l’industrializzazione crescenti portano in particolare il pensiero ambientalista concepire il naturale come una riserva da conservare e proteggere, ereditando in modo più o meno inconsapevole un mito fondatore colonialista e maschilista, basato sull’annichilimento di ogni cultura altra che la frontiera progressivamente attraversava. Il concetto, importato mutatis mutandis in una geografia europea diversamente strutturata e antropizzata, tende a mantenere un impianto dicotomico che squalifica ogni attività umana in ambiente “naturale”. Così strutturato, esso appare poco utile a confrontarsi criticamente con le pratiche di costruzione della natura (per fare solo un esempio pratico, l’ideazione dei parchi naturali), sia con tutto ciò che si dà nel continuum tra naturale e artificiale (ad esempio la biodiversità di alcuni spazi coltivati o i gli esiti del reinselvatichimento degli ambienti antropizzati).
Appare dunque paradigmatico in questa riflessione l’esempio di un percorso quale il viàz del Gonela, che è stato creato dagli autoctoni nel contesto di una montagna “povera” ma attraversata da attività produttive e urgenze pragmatiche poi dismesse, riscoperto da cittadini con nuova attitudine esplorative e ludica alla montagna e che diventa oggi possibile controesempio di una frequentazione consapevole dell’ambiente alpino, lontana dagli imperativi della monocultura turistica.
Significative dunque, in conclusione, le più recenti definizioni del percorso. Attualmente è possibile reperire online pubblicità del viàz che lo presentano come il “Selvaggio Blu delle Dolomiti” (l’accostamento rimanda a un trekking sulla costa sarda che, coniugando il brivido di passaggi tecnici al paesaggio, ha conosciuto nell’ultimo decennio uno straordinario successo in termini di frequentazione). Mentre la presentazione dell’itinerario torna con pathos crescente al tema del selvaggio, dell’inesplorato, dell’avventuroso, la scheda tecnica del pacchetto, che riguarda la possibilità di percorrerlo guidati da un professionista, lo classifica come percorso di «livello base». La ridefinizione della difficoltà mette in evidenza la diversa natura dei “nuovi” interlocutori: non più la nicchia di appassionati cui si rivolgevano le guide cartacee, ma un pubblico ben più ampio che, guidato e assicurato (materialmente e psicologicamente) dalla competenza specialistica e professionale offerta, è messo virtualmente in grado di azzerare (in alpinismo: superare artificialmente) le difficoltà dell’impresa. Ancora una volta, il processo di addomesticazione del selvaggio evoca esiti contraddittori, definendo la relazione soggettiva con lo stesso ora come l’oneroso premio di una dedita comprensione dello spazio alpino e naturale, ora come una digressione rapida, esotica e indolore dalla vita quotidiana che riafferma, interrompendola, l’egemonia dell’urbano. Non resta che augurarsi che il percorso conservi, pur rinnovandosi nella storia, una frequentazione discreta e rispettosa della storia inscindibilmente naturale e umana che racconta.
Citazione
Angelini, Giovanni,1950, Contributi alla storia dei monti di Zoldo, in «Le Alpi Venete 1949-1953», Venezia
Angelini, Giovanni,1968, Pramper- Mezzodì, in «Le Alpi Venete», Venezia
Bonetti, Paolo, Paolo Lazzarin, 1986, Dolomiti. Il grande libro dei sentieri selvaggi, Zanichelli, Bologna
Bonetti, Paolo, Paolo Lazzarin, 1996, Dolomiti di Zoldo, 61 escursioni fra Pelmo e Civetta, La Genzianella, Pieve Emanuele
Bonetti, Paolo, Paolo Lazzarin, Marco Rocca, 2006, Dolomiti. Nuovi sentieri selvaggi, Zanichelli, Bologna
Carusano, Pietro. 2011, Fra natura e società: il caso dell’alpinismo, in «CAMBIO – Rivista sulle trasformazioni sociali», Anno I, Numero 1/Giugno 2011
Cason Angelini, Ester 2008, Oronimi bellunesi. Monte Punta, Fagarè, Spiz di Mezzodì. Quaderni scientifici della Fondazione n. 9, Fondazione Angelini, Belluno
Mason, Vittorino, 2013, Il libro delle cenge. 56 Vie Orizzontali nelle Dolomiti, Panorama, Trento
Mummery A.F., 1895, Le mie scalate nelle Alpi e nel Caucaso, Vivalda, Torino (2001)
Varotto Mauro, 2017, Montagne del novecento. Il volto della modernità nelle Alpi e Prealpi venete, Cierre Edizioni, Verona
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